Tra i duecentocinquantamila che sabato hanno sfilato a Milano per gridare «prima le persone» e il milione e seicentomila che domenica si sono messi in fila in tutta Italia per votare alle primarie del Pd, possiamo dire che per il governo gialloverde è stato senza dubbio un pessimo fine settimana. A esattamente un anno dalle elezioni del 4 marzo, per due volte in appena 48 ore, un fiume di persone in carne e ossa ha smentito trecentosessantacinque giorni di analisi, sondaggi e profezie di sventura sulla nuova Italia populista, su un paese in cui il pensiero democratico non aveva più cittadinanza, e in cui qualsiasi forma di dissenso, qualunque narrazione alternativa, qualunque argomento contrario al discorso sovranista era squalificato in partenza.
Le prime crepe erano già emerse con le elezioni in Abruzzo e Sardegna, dove si erano cominciate a intravedere, pur tra mille difficoltà, le due novità che ora sono sotto gli occhi di tutti: la crisi drammatica del Movimento 5 Stelle e il riemergere di una dialettica bipolare tra un fronte sovranista guidato da Matteo Salvini e un fronte progressista guidato dal Partito democratico. La grande vittoria che ha incoronato Nicola Zingaretti, con un risultato (personale e di affluenza) sostanzialmente analogo a quello ottenuto da Matteo Renzi nel 2017, sembra dunque spianargli la via verso una nuova centralità del Partito democratico e della sua leadership. Come testimoniano i molti elogi che ha già raccolto da vecchi e nuovi compagni di strada. Romano Prodi dice di sentirsi «quasi a casa», Enrico Letta annuncia l’intenzione di riprendere la tessera, Walter Veltroni dice di vedere ora «una luce nuova». Tutti i maggiori opinionisti della sinistra celebrano la vittoria di Zingaretti con i toni di una rinascita, dando a intendere (o affermando esplicitamente) che con questo risultato si può chiudere finalmente la lunga parentesi renziana, archiviando alla svelta la sua leadership e la sua esperienza di governo, per tornare alle care vecchie abitudini.
A costo di rovinare la festa appena cominciata, diciamolo subito chiaramente: se il rinnovamento promesso da Zingaretti dovesse tradursi nel ritorno allo status quo ante, vale a dire di nuovo e ancora alla gloriosa tradizione del centrosinistra anni novanta, è probabile che il coro di elogi continuerebbe ad accompagnarlo fino alle prossime elezioni, allo stesso modo in cui accompagnò il governo di Paolo Gentiloni fino alle elezioni del 4 marzo. Con analoghi risultati. Nicola Zingaretti è stato incoronato leader del Partito democratico da oltre un milione e mezzo di persone: non deve puntare al premio della critica. Non deve preoccuparsi di come conservare la benevolenza dell’opinione pubblica e degli osservatori, ma di come investirla in un progetto di cambiamento, della sinistra e del paese, di cui lui, con il suo gruppo dirigente, i suoi sostenitori e i suoi alleati, è chiamato a essere l’artefice, non l’esecutore. Tocca insomma anche a lui il difficile compito – per citare un libro recente – di cercarsi un’altra strada.
È utile e giusto discutere di tutto quello che non ha funzionato, nel partito e nel governo, durante la stagione del vecchio gruppo dirigente, ma per andare avanti, non per tornare indietro. Non è questione di rivendicare o abiurare: che ce ne importa? Tutti faranno, inevitabilmente, un po’ l’una e un po’ l’altra cosa, in misura variabile secondo il buon senso e lo stile di ciascuno, con la dose fisiologica di conformismi e maramalderie che accompagnano il ricambio di qualsiasi organizzazione. Il punto è se Zingaretti finirà per rifluire nello stesso schema “anni novanta” che a suo tempo aveva imprigionato Pier Luigi Bersani, e che potremmo riassumere nello slogan “bandiere rosse e governo Monti”. Retorica di sinistra e scelte politiche conservatrici, all’insegna della “responsabilità”. Con molti ossequi a tutte le roccaforti della sinistra, dai sindacati alle diverse associazioni, corporazioni e consorterie burocratiche e intellettuali, che Renzi ha avuto invece il torto, imperdonabile, di provocare continuamente e gratuitamente, per ritrovarsele in breve tutte contro. È naturale che oggi, in tempo di ricostruzione, il nuovo segretario non possa non ricominciare da lì, con altri toni e con altre parole. Ma senza dimenticare che molte di quelle roccaforti sono meno forti e più diroccate che mai, e non sarà chiudendosi nella sfibrante tessitura di sempre nuovi dialoghi e sempre nuove coalizioni, sociali e politiche, con intermediari sempre meno rappresentativi, che il Pd riuscirà a ristabilire un rapporto con la società italiana.
È pertanto molto incoraggiante che come primo atto Zingaretti sia andato sui cantieri della Tav, che non è solo la questione politica decisiva su cui la maggioranza sta entrando in crisi, ma è anzitutto il simbolo di una battaglia per far ripartire l’Italia, i cantieri, lo sviluppo e il lavoro, e dunque è anche la migliore risposta ai tanti e non sempre infondati timori di un graduale scivolamento del Pd nell’orbita del populismo grillino. È incoraggiante e importante che Zingaretti, come primo atto, abbia deciso di andare lì, anziché rinchiudersi in una bella serie di incontri con i sempre numerosi stati maggiori di partiti dallo zero virgola, al solo scopo di gridare alla rinascita del centrosinistra. Meno incoraggiante, nella stessa ottica, che insista con la retorica del non-capo e con la tesi secondo cui il segretario del Pd non dovrebbe essere il naturale candidato alla guida del governo di una coalizione di cui il Pd sia il principale partito. Ma per affrontare questo problema c’è ancora un po’ di tempo, purtroppo.