Giovedì sera, durante Piazza Pulita, la trasmissione condotta da Corrado Formigli, è andato in onda un reportage sui campi di detenzioni libici. Resoconti e immagini terribili, che testimoniano la situazione di continua e brutale violazione dei diritti umani. Non è certo una sorpresa: in questi mesi diverse organizzazioni, a cominciare dall’Onu, hanno messo nero su bianco denunce pesantissime, puntualmente ignorate nel nostro paese anche dai principali organi di informazione (con qualche eccezione, a cominciare dal lavoro straordinario fatto da Avvenire). Oggi nessuno può più sostenere di non sapere cosa stia accadendo ogni giorno in Libia: torture e stermini di massa. E spesso a consentire – se non addirittura a compiere – le violenze sono quelle stesse autorità che il nostro paese ha scelto di considerare interlocutori affidabili e con cui ha sottoscritto accordi di collaborazione. Alla Libia ancora oggi stiamo fornendo mezzi militari e risorse, finendo così, in alcuni casi, per armare i carnefici.
È noto e agli atti che io non abbia condiviso impianto culturale e scelte concrete compiute dal mio partito e dal nostro governo in questo ambito, che ho criticato a suo tempo pubblicamente. Ma di fronte a una simile tragedia riaprire oggi un dibattito interno al Pd sulle scelte di allora non ha senso. Piuttosto che dividersi sul passato, è più utile cercare di comprendere cosa sia giusto fare ora, soprattutto di fronte all’evidente mutamento del quadro complessivo: la strategia di costruzione di un soggetto statuale libico che divenisse progressivamente affidabile e che dunque potesse garantire standard di vita accettabili per i migranti poteva apparire sensata allora, ma è ormai del tutto irrealistica: oggi dobbiamo riconoscere che quella strategia è fallita. La situazione di sostanziale anarchia in cui versa la Libia rende inimmaginabile un’evoluzione positiva in tempi rapidi. Oggi quel paese è una terra di nessuno in cui la vita di decine di migliaia di persone è alla mercè dei trafficanti di esseri umani: continuare a sostenere la guardia costiera libica, o puntare su questo o quell’interlocutore, significa semplicemente legittimare uno status quo inaccettabile. Un grande paese democratico come l’Italia non può più chiudere gli occhi e certo non può farlo la sinistra, non può farlo il Partito democratico.
Gli accordi di collaborazione con la Libia vanno stracciati: non ci può essere alcuna forma di collaborazione con chi è corresponsabile di questa crisi umanitaria. Non è una posizione che pecchi di scarso realismo o di radicalismo, come spesso si sente dire da chi la contesta. È vero semmai il contrario. La sinistra riformista occidentale fondò negli anni novanta parte della sua identità politica sulla rivendicazione di un principio universale: di fronte a un genocidio, la comunità internazionale ha il dovere di intervenire. La scelta di continuare a considerare come interlocutore chi si rifiuta di sottoscrivere la convenzione di Ginevra non ha niente a che fare con quella storia e non ha titolo per richiamarsi a quella tradizione: ne è semmai la più palese negazione.
Stracciare gli accordi ovviamente non basta a risolvere tutti i problemi, ma è un primo passo che ne chiama altri: di fronte a una strage quotidiana, perché non sfidare la comunità internazionale sulla necessità di attivare una missione di pace internazionale, sotto l’egida dell’Onu, che garantisca il rispetto dei diritti umani in Libia? Davvero la comunità internazionale può rimanere inerte e disinteressata ancora a lungo? Il Pse e i paesi a guida progressista dovrebbero farsi promotori di una iniziativa che investa il Consiglio di sicurezza della necessità di un’assunzione di responsabilità collettiva. E lo stesso discorso vale per quel che accade nel Mediterraneo. L’idea che possa essere la guardia costiera libica l’unico soggetto legittimato a intervenire è inaccettabile. C’è un’unica alternativa possibile nell’immediato: restituire al nostro paese e all’Europa il compito di salvare vite umane, come fu con la missione Mare Nostrum. Fu chiusa perché costava troppo, ma le risorse che oggi investiamo in rivoli diversi della gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo non sono poi molto inferiori, mentre lo sono i risultati raggiunti.
Stracciare gli accordi con la Libia, costruire le condizioni per una missione internazionale di pace e riprendere l’attività di salvataggio nel Mediterraneo: è un cambio radicale di strategia rispetto a quanto fatto in questi anni, ma a fronte del mutare della situazione in Libia mi pare inevitabile introdurre elementi di forte discontinuità. Credo e spero che il nuovo segretario del Partito democratico, sin dal giorno della sua proclamazione, possa dare su questo un segnale inequivocabile. Sui migranti abbiamo commesso molti errori. Ma forse il più grave è stato limitarci a chiederci quanti ne arrivassero e non da cosa stessero scappando.