Se il populismo è una categoria politica di difficile definizione, il populismo penale offre una dimensione meno problematica: in senso ampio è la strumentalizzazione della giustizia penale al fine di ricercare un consenso politico immediato e contingente. Luigi Ferrajoli parla di uso demagogico e congiunturale del diritto penale, con cui riflettere e alimentare la paura come fonte di consenso elettorale, mentre Giovanni Fiandaca lo descrive come la «strumentalizzazione politica del diritto penale e delle sue valenze simboliche in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure, allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico-mediatiche propense a drammatizzare il rischio-criminalità».
È il diritto penale come catarsi elettorale che si manifesta attraverso un continuo rilancio di inasprimenti delle pene, introduzione di nuove figure di reato, riduzione dei benefici processuali e penitenziari, promessa di un sistema repressivo più efficace, che genera politiche securitarie e induce nell’opinione pubblica la convinzione che lo stato di diritto sia incompatibile con la sicurezza. La tendenza penal-populista si manifesta negli Stati Uniti come discorso tipico della destra neoconservatrice, nelle promesse di politiche law and order degli anni sessanta, per poi conquistare l’intero spazio politico alla ricerca del voto di un’opinione pubblica profondamente insicura e spaventata dai rivolgimenti sociali. Nel suo saggio Il governo della paura – Guerra alla criminalità e democrazia in America, Jonathan Simon spiega come negli Stati Uniti la criminalità sia diventata un elemento centrale nell’azione del governo e l’endiadi «legge penale e prigione» funzioni perché è un messaggio comprensibile a rassicurante, che permette di trarre il massimo vantaggio dalla questione sicurezza.
Negli ultimi decenni si è assistito anche in Italia a quella che Denis Salas definisce una «criminalizzazione scriteriata», in cui la logica del diritto penale è diventata dominante e si sono manifestati tutti i sintomi del morbo populista: l’allarmismo sulla sicurezza che condiziona un’opinione pubblica sempre più insicura, eccitata dall’antipolitica e dalla spettacolarizzazione della giustizia; il ruolo moralizzatore assunto dalla magistratura; la strumentalizzazione delle vittime che trasfigura la giustizia in un risarcimento simbolico all’intera comunità (noi, il popolo) e che rende insostenibile la presunzione di innocenza. Ma dietro alla criminalizzazione, scrive ancora Salas, si profila lo spettro della guerra di tutti contro tutti in cui lo Stato, che non è più in grado di distribuire giustizia sociale, promette sicurezza.
Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del livello di criminalità nel dopoguerra, la percezione di insicurezza e paura – alimentate da politica e media – genera consenso verso chi si propone come giustiziere. Ma non è la morte della politica, come qualcuno sostiene, bensì la proliferazione della politica populista: è una giustizia emotiva amministrata per soddisfare gli umori del popolo.
Il patto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle trova una sintesi perfetta proprio nel populismo penale e in una visione moralista della giustizia, una teocrazia della legalità, ma una legalità declinata in senso repressivo e autoritario, lontana dalla legalità costituzionale.
Il populismo penale ha la sua forza principale, oltre che nella paura, nella carica emotiva – e ricattatoria – che può vantare verso l’opinione pubblica attraverso la strumentalizzazione delle vittime («l’ideologia vittimaria è oggi il primo travestimento delle ragioni dei forti» ricorda Daniele Giglioli in Critica della vittima, libro fondamentale per leggere l’Italia contemporanea).
Dopo ogni fatto di cronaca si attiva uno schema consolidato: la reazione dell’opinione pubblica che chiede di punire in nome delle vittime e della sicurezza, biasimando le istituzioni incapaci di reagire, e la politica che promette punizioni esemplari e interventi normativi. La serie di riforme approvate dalla maggioranza di governo formata da Lega e Movimento 5 Stelle segue questo schema. La riforma della legittima difesa, la legge «spazzacorrotti», la cancellazione della prescrizione, l’esclusione del giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, la criminalizzazione del soccorso in mare sono la rivendicazione di un’ortodossia del populismo penale: ricerca del consenso e strumentalizzazione delle vittime, della paura, dell’insicurezza.
La situazione è seria, e sono sempre più frequenti gli appelli che arrivano da mondi diversi – università, avvocatura, parte della magistratura – per invertire una tendenza culturale prima che politica, per opporsi a una politica che sgretola i principi fondamentali della democrazia liberale. Ma la subalternità culturale a questo giustizialismo è anche conseguenza di una storia italiana fatta di emergenze e di legislazioni speciali.
Il giustizialismo, inteso come l’auspicio di una pragmatica cancellazione di ogni garanzia in nome di una giustizia rapida e severa, si è sviluppato lungo almeno tre decenni. Se è con Mani Pulite che la domanda giustizialista esplode e si consolida, le origini del populismo penale italiano sono più antiche: le leggi speciali degli anni settanta e ottanta, l’emergenza antimafia, i pacchetti sicurezza che hanno scandito la vita politica italiana, contribuendo a un’erosione progressiva della cultura garantista nella società (ma potremmo dire della cultura giuridica in generale). Le vicende giudiziarie hanno un clamore spropositato sui mezzi di informazione – che ne forniscono spesso un racconto parziale – la presunzione di innocenza è diventata una formula di cortesia, la politica risponde alle ondate emotive con l’adattamento.
Tra gli anni sessanta e i novanta, il nostro paese ha attraversato una stagione di violenza drammatica, tra terrorismo e criminalità organizzata. La strage di piazza Fontana nel 1969 segnò l’inizio di un decennio culminato nel 1978 con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. In mezzo, un attacco alla democrazia portato prima dallo stragismo della destra neofascista e poi dal terrorismo delle Brigate rosse, fronteggiati da un’alleanza virtuosa tra opinione pubblica e istituzioni democratiche, ma con un altissimo prezzo da pagare per le garanzie e il diritto di difesa. Lo Stato ha reagito al terrorismo con una legislazione di emergenza – condivisa da quasi tutte le forze politiche – che ha introdotto un sistema repressivo straordinario, un vero diritto penale del nemico: inasprimenti di pena ed estensione generalizzata dei poteri di polizia furono le linee guida di una produzione normativa che, a partire dal 1974, tra i vari interventi, estese la durata della carcerazione preventiva e limitò la concessione della libertà provvisoria. Nel 1975 la legge Reale incrementò i poteri di perquisizione e i casi di uso legittimo delle armi da parte della polizia. Nel 1977, in ragione dello stato di emergenza, si ampliarono i poteri di fermo dei sospettati e si introdussero i regimi carcerari speciali. Il decreto Moro del 1978 (approvato cinque giorni dopo il rapimento di Aldo Moro) conteneva una serie di norme antiterrorismo tra cui l’interrogatorio senza difensore e la possibilità di effettuare intercettazioni nei confronti dei non indiziati di reato. La legge Cossiga del 1980 portò a novantasei ore il fermo di polizia per soggetti anche solo sospettati di atti legati al terrorismo. Questo apparato normativo si dimostrò efficace contro il terrorismo, ma rappresentò un arretramento oggettivo dello stato di diritto per ottenere il risultato, ed è certo che culturalmente rafforzò una contrapposizione tra sicurezza e diritti – con i secondi sempre sacrificabili – che resterà centrale nel dibattito politico.
A una sempre maggiore fiducia nella magistratura – che smise progressivamente i panni del potere conservatore, anche attraverso conflitti interni e l’avvento di Magistratura democratica, per connotarsi come forza progressista negli anni settanta e ottanta – si affiancò l’insofferenza per istituzioni che apparivano incapaci di reagire adeguatamente agli attacchi alla democrazia, se non colluse («le stragi di Stato»), attivando il gene dell’antipolitica, vera malattia degenerativa del sistema democratico, e che avrà una manifestazione precoce nella campagna di stampa che portò alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, pochi mesi dopo l’omicidio di Aldo Moro.
Lo stesso meccanismo si è riprodotto con la lotta alla criminalità organizzata e la legislazione speciale antimafia, che ha introdotto il cosiddetto «doppio binario», un sottosistema di norme che presentano spesso una deroga dai livelli minimi di garanzie. Si pensi al regime carcerario del 41 bis, norma di carattere emergenziale che fu poi estesa a reati diversi e che oggi rappresenta un dogma intoccabile, nonostante le sue criticità dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.
Il 1992 segnò il culmine della crisi del sistema con gli attentati mafiosi contro Falcone e Borsellino e l’inizio di Mani Pulite, a cui si sovrapposero nel 1993 le accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso per Andreotti. Il parossismo di quella stagione si manifestò in una sinergia perversa tra partiti politici, stampa e opinione pubblica che appoggiavano questa “rivoluzione giudiziaria” mentre le posizioni critiche venivano ridotte a eresia anche all’interno dei grandi partiti, consolidando l’idea che la giustizia penale fosse la soluzione ai mali della democrazia. Nasce la figura del Grande Inquisitore come contro-potere, rafforzata dall’atteggiamento delle forze politiche che individuarono nella magistratura un alleato nella moralizzazione del paese, considerandola un’articolazione della società civile e non – come si sarebbe dovuto – un potere dello Stato. Le esperienze politiche di magistrati come Di Pietro, Ingroia, De Magistris, che in tempi diversi entrano in politica fondando un proprio movimento, replicano nel sistema politico italiano quello che Jonathan Simon chiama «complesso accusatorio»: l’assunzione da parte della politica di un ruolo di accusatore pubblico, ingenerando una confusione di ruoli e di poteri che ha segnato gli ultimi trent’anni.
Mani Pulite però non rafforza solo la cultura giustizialista (con la spettacolarizzazione degli arresti e l’abuso della custodia cautelare) ma anche l’offerta populista. Berlusconi scende in campo nel 1994 con una coalizione che comprende due partiti come il Movimento sociale – da sempre, per ragioni storiche, schierato su una linea «legge e ordine» – e la Lega, che mostrerà la sua cultura liberale portando un cappio in parlamento. Ma lo spirito del tempo non è così lontano nemmeno dal primo Berlusconi che offre a Di Pietro il posto da ministro degli Interni nel suo governo (Di Pietro sarà poi ministro del Lavoro nel governo Prodi, nel 1996).
Da allora la sicurezza diventa uno slogan universale, «né di destra, né di sinistra», un mantra rinnovato a ogni campagna elettorale. Dal 1994 in poi quasi ogni governo ha introdotto (o promesso di introdurre) inasprimenti di pena, nuovi reati, meno garanzie per i recidivi. Mentre il centrodestra e Berlusconi abbinavano il garantismo per alcuni a politiche law and order contro la criminalità di strada e l’emarginazione sociale (leggi sugli stupefacenti, immigrazione, minoranze etniche), il centrosinistra ha spesso inseguito le politiche securitarie (nello scorso decennio licenziarono «pacchetti sicurezza» il governo Amato nel 2001 e il governo Prodi nel 2008). Ma se queste politiche law and order sono connaturate alle ragioni della destra, qualche perplessità rimane verso le forze progressiste che scelgono di farle proprie, andando oltre un ragionevole approccio realista.
Ignorare il problema non è politicamente redditizio, ma non capire che la sicurezza può essere declinata in modi diametralmente opposti, e delegare alla promessa di sicurezza pubblica quanto era divenuto complicato garantire in sicurezza sociale, si è rivelato un errore. Le leggi emergenziali potevano essere giustificate fino alla metà degli anni novanta, poi qualcosa è cambiato: secondo le statistiche il paese era più sicuro, ma è stato un susseguirsi di invocazioni alla «tolleranza zero», con la trasformazione dei sindaci in figure mitologiche, metà amministratori locali e metà poliziotti.
Negli ultimi decenni, governi di centrodestra e di centrosinistra hanno utilizzato la sicurezza come generatore di consenso, arrendendosi all’incapacità di filtrare le pulsioni securitarie dell’elettorato. L’effetto di queste politiche, nel lungo periodo, è stato da un lato quello di normalizzare il populismo penale e dare vita a una giustizia penale profondamente discriminatoria, che ha trasferito l’emarginazione sociale all’interno delle carceri, dall’altro quello di mitridatizzare l’opinione pubblica, ormai convinta che questo sia l’unico modello di sicurezza accettabile e che il complesso di garanzie e diritti del nostro ordinamento sia un’impalcatura insostenibile e sacrificabile.
Avere cavalcato il populismo penale ha generato una tempesta perfetta nel momento in cui si è formata una maggioranza parlamentare che ha saldato il peggior giustizialismo moralista con il populismo securitario e repressivo contro criminalità diffusa e immigrazione, portando al governo una cultura di sistematica demolizione dello stato di diritto. Lo spirito populista accompagna ogni norma con una connotazione emotiva: all’attività legislativa si affianca l’attività persuasiva, con i continui richiami a pene più dure, al «marcire in carcere», al «gettare la chiave». Chiude il cerchio uno sfruttamento ricattatorio delle reazioni emotive ai casi di cronaca, fino ad evocare la castrazione chimica e il ritorno alla pena di morte.
Corriamo un grande rischio, lo si è visto dopo alcuni casi di cronaca in cui l’onda emotiva dell’opinione pubblica si è scatenata contro giudici e tribunali, colpevoli di avere violato le aspettative punitive del popolo: la delegittimazione del sistema processuale, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, e del diritto di difesa. Ma è legittimo a questo punto aggiungere un’altra domanda, e chiedersi se il populismo penale sia ormai inestricabile dalla politica e dalla società, se i canoni del populismo penale siano stati interiorizzati a tal punto da rendere impossibile una visione alternativa.
È una domanda che ci porterebbe magari a scoprire che il populismo penale è un carattere genetico della nostra società, se non fosse che in Costituzione è scritto esattamente il contrario. La presunzione di innocenza, il giusto processo, l’inviolabilità della libertà personale, la funzione rieducativa della pena continuano a essere principi supremi dell’ordinamento. Una politica che voglia contrastare il populismo penale deve restituire centralità a questi principi.
Per prima cosa si deve abbandonare un lessico securitario in cui è difficile distinguere le varie proposte. Si pensi al continuo richiamo alla «certezza della pena», che nasconde il retropensiero che l’unica pena certa sia il carcere, dimostrando un’assonanza di vedute trasversale con la destra populista. L’Italia è stata condannata più volte dalla Cedu per il sovraffollamento carcerario, mentre il Consiglio d’Europa, nelle sue Statistiche annuali penali (c.d. «Space») pubblicate nel 2018, ha rilevato come nel nostro paese ci siano troppi detenuti in attesa di giudizio o di sentenza definitiva, il 34,5%, contro una media europea del 22,4%. Confrontando le statistiche sulla criminalità e quelle sulla popolazione carceraria si scopre che dagli anni novanta a oggi, a fronte di un costante calo dei reati, soprattutto di quelli più gravi come gli omicidi, la popolazione carceraria italiana è raddoppiata.
Per uscire dalla trappola del populismo penale si dovrebbe provare a spiegare che in Italia la pena è certa, che le condanne vengono scontate, che in un sistema basato sull’articolo 27 della Costituzione e sulla funzione rieducativa della pena i benefici penitenziari – affidati alla discrezionalità di un giudice – sono irrinunciabili. Si dovrebbe uscire dalla logica del caso eccezionale nel racconto delle questioni giudiziarie, ricordando che ci sono oltre 50.000 condannati che scontano silenziosamente la pena attraverso misure alternative al carcere, una forma di esecuzione che secondo le statistiche abbatte il tasso di recidiva rispetto a chi sconta la sua pena «marcendo in carcere».
Si devono combattere le deformazioni propagandistiche in cui siamo imprigionati, perché il sistema giudiziario ha enormi problemi, ma non certo la mancanza di poteri coercitivi o le troppe garanzie; è vero il contrario: si fa un uso eccessivo della custodia cautelare e il sistema penitenziario è allo stremo.
Una politica che voglia contrapporsi al populismo penale deve tornare a rivendicare la legalità costituzionale e i suoi principi, riportando al centro del discorso concetti semplici come la presunzione di innocenza e il giusto processo. La politica deve riprendersi quella funzione pedagogica che ha smarrito in nome della ricerca del consenso, affidandosi alla legislazione penale per contrastare le questioni sociali e le grandi emergenze criminali.
Una politica che voglia sfidare il populismo penale deve cominciare col dire che c’è sicurezza e sicurezza: c’è una sicurezza progressista e liberale – democratica – e una sicurezza populista, conservatrice e repressiva che conduce dritti all’autoritarismo. Riconoscere la profonda politicità della sicurezza, come ricorda Adolfo Ceretti, nel bellissimo saggio Oltre la paura. Relegare la giustizia penale a extrema ratio, e riprendere a combattere i fenomeni con politiche sociali, di lungo termine, e non relegarli allo spazio angusto della reazione penale. Declinare la parola «legalità» in senso virtuoso, nel rispetto dei diritti e delle garanzie, e la certezza della pena in modo corretto, abbandonando una visione carcero-centrica per cui solo il carcere è una pena adeguata, e riproponendo la riforma dell’ordinamento penitenziario, lasciata cadere proprio in nome del populismo penale, magari spiegando una volta per tutte che il carcere è una fabbrica di criminalità. Per rovesciare il paradigma del populismo penale la politica deve tornare a svolgere quella funzione di mediazione necessaria per il progresso democratico, sgonfiando la bolla giustizialista e l’idolatria della legislazione penale, ma soprattutto deve smettere di confondere la giustizia penale con la giustizia sociale.
Matteo Orfini
L’algoritmo dell’antipolitica
Antonio Nicita
La guerra dei dati