Un’altra idea di casa

Nella città postindustriale, a Milano, Londra o Parigi, le case popolari, da strumenti di inclusione abitativa e sociale si sono spesso trasformate in pericolose trappole di disperazione. Intonaco scrostato, porte sfondate, ascensori bloccati e cumuli di spazzatura sulle scale. Gli interventi sociali di sostegno faticano a incorporarsi in una strategia continuativa e risolutiva. Architetti e urbanisti guardano da un’altra parte, incapaci di rivivere quella passione sperimentale spentasi nella dismissione ideologica. Si sta però affermando anche una visione alternativa che affronta con determinazione la questione. In questi giorni il premio internazionale BCN-NYC Affordable Housing Challenge, organizzato dai Comuni di Barcellona e New York, è stato assegnato ai progetti congiunti Sistema di costruzione di edilizia popolare dell’Università Nazionale della Colombia e Innovazione per l’inclusione sociale di Straddle 3 di Barcellona.

Il piano, che avrà una prima sperimentazione a New York, mira a completare la città sfruttando i vuoti che ancora esistono nel tessuto urbano. Si propone sia riqualificazione dell’esistente sia nuova edificazione ma senza consumo di suolo. Tecniche di costruzione economica leggere, adattabili e rapide da installare. La proposta costruttiva permette di edificare residenze con minimi supporti a terra, sospese nell’aria, persino rinnovando settori urbani deteriorati o sottoutilizzati intorno ad autostrade, porti o stazioni di trasporto. L’esempio più noto di questa nuova tendenza è il progetto semplice e austero realizzato in un quartiere periferico di Bordeaux. Attenti agli abitanti più che alle abitazioni, un gruppo di architetti francesi ha radicalmente rivoluzionato il quotidiano di tre vecchi casermoni di edilizia economica dei primi anni Sessanta. La costruzione sovrapposta di Lacaton, Vassal, Druot e Hutin nel quartiere della Cité du Grand Parc ha vinto in questi giorni il Premio Mies Van der Rohe 2019.

Un’idea inedita realizzata semplicemente addossandosi alle lunghe facciate di sedici piani. I progettisti non hanno restaurato quell’intonaco colorato da geometrie improvvisate che è l’emblema inconsapevole delle nostre periferie. Quelle facciate tristi sono state negate, nascoste da una nuova, leggera ed efficace struttura trasparente. Moduli di ampie logge vetrate che hanno sostituito le anguste finestre e ampliato ogni alloggio con un nuovo spazio vitale. Ciascuna delle 530 unità ha guadagnato dai 25 ai 45 metri quadrati. Un nuovo ambiente aperto alla luce, al paesaggio, al quartiere. L’anziana signora che vive da sempre in uno degli appartamenti racconta che con il variare della luce, con sole o pioggia sulle strade, la vita degli altri entra a far parte della sua. «Ora passeggio, guardo la gente, curo le piante, ma soprattutto non vivo più sola, il mio compagno adesso è il tempo». La trasparenza delle logge, pur protette e private, ha creato un nuovo sentimento di condivisione, se non di comunità. Si è contraddetto quel rito contemporaneo della solitudine condivisa, dell’incontro fortuito nell’angusto corpo scala del buongiorno e buonasera.

Quasi sessant’anni fa l’architetto Jean Royer firmava il piano urbanistico della Cité du Grand Parc per rispondere al crescente fabbisogno abitativo della ricostruzione industriale francese. Edifici occupati da migliaia di operai e immigrati che negli anni sono stati però progressivamente abbandonati per l’assenza di manutenzione e la conseguente decadenza strutturale. Resiste quel popolo di anziani e famiglie immigrate che ben riconosciamo nei vecchi blocchi di edilizia economica delle nostre città. Si è voluto intervenire in modo non invasivo, senza alcun trasferimento, nemmeno temporaneo, degli inquilini. I moduli sono stati prefabbricati in officina e assemblati a piè d’opera. Con delicatezza le gru hanno sollevato una per una le logge, agganciandole alla struttura delle facciate. Non si è interferito nella vita delle persone che dalle loro finestrelle vedevano arrivare una nuova, grande stanza per il loro appartamento. Il sistema costruttivo ha permesso peraltro tempi di lavoro brevi. Dall’inizio del progetto a fine cantiere sono trascorsi solo tre anni, dal 2014 al 2017.

Nelle laboriose riqualificazioni edilizie la necessità di trasferimento scatena conflitti e disagi importanti, soprattutto per le persone più anziane. Significa lasciare un quotidiano fatto di abitudini, di vicini conosciuti, perdere quella minima ma vitale rete di sostegno, vivere la paura di un trasloco non solo temporaneo. Gli architetti, assecondati con generosità da un committente pubblico illuminato, l’Agenzia per la Casa Aquitanis della Città metropolitana di Bordeaux, hanno reso concreta una visione, anzi un cambio di visione. Hanno guardato a quelle case con gli occhi di chi le vive, anteponendo le necessità delle persone alle consuetudini della tecnica. La giuria del Premio Mies ha deliberato che «in un momento in cui le commissioni per l’edilizia convenzionata chiedono la riduzione delle superfici degli appartamenti, qui il volume è aumentato, offrendo maggiore dignità e dando più valore all’individuo e alla comunità».

L’impegno a anteporre gli interessi degli abitanti alla logica di semplice edificazione residenziale si sta affermando oggi anche nelle intenzioni di architetti, operatori economici e amministratori italiani. Recenti insediamenti di housing sociale sperimentano tipologie innovative, spazi e pratiche virtuose di coesione sociale e costruzione di comunità. I destinatari di questo tipo di edilizia sono però prevalentemente i giovani e quel ceto medio impoverito, reso fragile dalla crisi economica. Abitanti inseriti nel mondo del lavoro e attrezzati socialmente. Affiora invece un sentimento di confusione e impotenza quando si pensa ai vecchi quartieri popolari degradati, quelli del disagio sociale profondo dei non inclusi. Quelle case che la miglior politica e la miglior avanguardia degli architetti progettavano, accompagnando e spesso anticipando l’evoluzione sociale e culturale dei ceti popolari. Quegli edifici, quei cortili, erano immaginati come strumenti di emancipazione e sviluppo coeso della città. Oggi sono ghetti d’abbandono, di negazione delle opportunità. È necessario e urgente un cambio di passo progressista nella gestione politica e tecnica, bisogna recuperare i fondamentali di quel solidarismo socialista e cattolico, di quella passione ideologica che sosteneva e anticipava l’evoluzione della città.