Se non fosse per il fatto che sui giornali, in televisione, sui social si trova ogni minuto qualcuno che pretende carcere e manette per la categoria bersaglio dell’indignazione momentanea, a questa idea del ministro Bonafede del carcere come «svolta culturale» ci si potrebbe anche credere. Siamo immersi in un’infinita ossessione carceraria, e tra i sintomi del deperimento politico e culturale che attraversiamo c’è sicuramente avere affidato alla durezza della risposta sanzionatoria ogni insicurezza sociale, e nell’avere confuso un sistema di esecuzione penale equilibrato, certamente difettoso, con un ingiustificabile liberi tutti che premia i colpevoli e penalizza gli onesti. Dal punto di vista del ministro della Giustizia la riforma dei reati tributari, sintetizzata con la consueta raffinatezza di pensiero in «manette agli evasori», è senza dubbio una evoluzione naturale per superare l’impunità generalizzata che governa il nostro sistema.
Purtroppo questa idea di una impunità generalizzata è molto diffusa, e non è solo del ministro della Giustizia. Nessun evasore va in carcere, si dice, nessuno sconta la pena a cui viene condannato. In realtà l’attuale disciplina dei reati tributari prevede già il carcere come pena principale praticamente per tutti i reati. Certo, non tutti i condannati per reati tributari scontano la pena in carcere, potendo talvolta beneficiare di misure alternative alla detenzione o della sospensione condizionale, ed è qui che il rovello etico del ministro e del Movimento 5 stelle diventa insostenibile, perché sono portatori di una cultura per cui non esiste pena all’infuori del carcere, perché qualsiasi pena diversa dal carcere è impunità o privilegio. Da questo punto di vista le visioni del governo gialloverde si sintetizzavano perfettamente: carcere per i poveri e i disgraziati da una parte, carcere per ricchi e privilegiati dall’altra, ma sempre carcere come unica lingua parlata dallo Stato.
La speranza era che il superamento dell’esperienza di governo sovranista-populista servisse anche a mettere degli ostacoli a questa idea che la galera sia la divinità a cui sacrificarci, il principio supremo attorno a cui raccogliere la democrazia, e che nella nuova maggioranza di governo si iniziasse una resistenza culturale e politica a questa deriva, ma di questa resistenza per ora non c’è traccia. Non c’è molta differenza tra la logica alla base dei decreti sicurezza e quella delle manette agli evasori: è la logica di uno Stato etico e securitario, inesorabile e truce, in cui la punizione non è la ricomposizione di una frattura provocata dalla violazione di una norma, ma un simbolo del potere dello Stato e una ricompensa per chi si sente onesto e perseguitato. Nella prefazione di A futura memoria, Sciascia scriveva che i fanatici e i cretini sono tanti e godono di buona salute, e che «contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti». La prevalenza di questi fanatici assottiglia lo spazio rimasto per spiegare che questa visione della giustizia è sbagliata, inefficiente, lontana dalla Costituzione e che la cultura del carcere non va affermata, va superata.