A trent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia ho riletto alcuni suoi scritti tornando ad apprezzare, tra l’altro, l’ossessione – come egli stesso la definiva – per il diritto e la giustizia. In altre parole, l’ossessione per il valore culturale dello Stato di diritto. Una tale tensione era sicuramente dovuta alla sua adesione alla tradizione illuministica, ma scaturiva, in ogni caso, da una profonda comprensione filosofica della portata morale dello Stato di diritto. Lo Stato di diritto è infatti quella forma di organizzazione istituzionale nella quale l’esercizio del potere è sottoposto al primato, e dunque al controllo, della legge. In particolare, della legge che incorpora i diritti inalienabili dell’uomo rendendoli fondamentali e indiscutibili nell’ambito degli ordinamenti costituzionali. Da questa definizione elementare si capisce come lo Stato di diritto rappresenti un limite nei confronti del potere. Tanto nei confronti dei poteri “politici” (legislativo ed esecutivo), anche quando essi siano legittimati democraticamente, tanto nei confronti del potere giudiziario, al fine di evitare che i poteri dello Stato, con l’esercizio arbitrario delle loro funzioni, violino i diritti degli individui.
L’ossessione di Sciascia, la fede nel valore dello Stato di diritto, era e resta, nel nostro Paese, una credenza isolata. Una convinzione che, nei fatti, non ha intercettato il senso comune. E questo vale tanto per la classe dirigente quanto per l’opinione pubblica in generale. Il nostro Paese, infatti, ha spesso affrontato problemi storici, radicati profondamente nel terreno storico-culturale della società, attraverso strumenti legislativi incompatibili con i principi dello Stato di diritto. Basti pensare alla legislazione antiterrorismo degli anni Settanta, alla successiva legislazione antimafia, alla prassi giudiziaria nell’epoca di Mani pulite, per giungere, oggi, alla scelta di affrontare il problema dell’inefficienza del sistema giudiziario attraverso il blocco della prescrizione. Siamo chiaramente di fronte alla tendenza strutturale a mettere in discussione i diritti e le garanzie individuali in nome di beni che sono stati, ed evidentemente sono ancora oggi, posti sopra i diritti: sicurezza, moralità pubblica, efficienza amministrativa…
Le patologie endemiche dello Stato di diritto in Italia si riscontrano costantemente nell’esercizio del potere politico, che spesso, forte del consenso elettorale ricevuto, ha mal tollerato i limiti posti dal sistema istituzionale. Basti pensare all’insofferenza diffusa nei confronti del ruolo e delle prerogative di organi che non godono di una legittimazione democratica diretta, come nel caso del Presidente della Repubblica o della Corte Costituzionale.
Se poi si riflette sulle critiche sistematicamente rivolte nei confronti di uomini e istituzioni che, in solitudine, fanno appello alla necessità di garantire i principi dello Stato di diritto sempre e comunque, il quadro tratteggiato, volto a descrivere l’impopolarità di tale concezione, è forse ancora più intenso. Come interpretare altrimenti le recenti invettive nei confronti di Armando Spataro, reo di avere censurato la spettacolarizzazione dell’attività giudiziaria da parte della magistratura inquirente, la quale si auto attribuisce un dovere di moralizzazione della società? Come leggere la rivolta mediatica nei confronti della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo contro la norma sull’ergastolo ostativo che viola apertamente il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti? E cosa si dovrebbe dire dell’offensiva reale e virtuale nei confronti del Presidente Mattarella, poco prima della nascita del primo governo Conte, a causa della sua strenua difesa dei principi della democrazia parlamentare contro gli attacchi del populismo demagogico? Infine, come dovremmo considerare gli argomenti di chi, oggi, considera le opinioni contrarie al blocco della prescrizione come favorevoli a chi delinque? D’altronde proprio Sciascia era stato a suo tempo accusato di collateralismo con il potere mafioso poiché si era permesso di criticare la decisione del Csm di procedere alla nomina a procuratore capo in base a criteri non previsti dall’ordinamento, e cioè in base all’impegno antimafia.
A ben vedere, siamo sempre di fronte al medesimo deficit, che tale è destinato a rimanere perché per colmarlo sarebbe necessaria una cultura politica di fondo adeguata. Una cultura che, purtroppo, è storicamente assente. La concezione dello Stato di diritto non fa parte, al di là del dettato costituzionale e di una certa retorica, del patrimonio culturale del nostro Paese. Non fa parte della classe dirigente, sia essa di sinistra, di destra, di centro, movimentista o pseudo tale. E non fa parte dell’opinione pubblica, strutturalmente animata da una miscela demagogica fatta di istinto di vendetta, astio nei confronti di coloro che rivestono posizioni di rilievo pubblico, morbosa curiosità che porta all’invasione della sfera privata. Siamo sì la patria di Beccaria, ma siamo diventati soprattutto la culla del populismo penale.
A monte, a essere sempre stata minoritaria nel nostro Paese è un’autentica cultura liberale. È sempre mancato, in particolare, quel liberalismo sociale che coniuga, nella cornice dello Stato di diritto, il rispetto dei diritti individuali con il necessario intervento dello Stato per rimuovere le disuguaglianze materiali. Non a caso, il liberalismo di cui parlo non ha trovato cittadinanza né (ovviamente) nel fascismo, né nell’antifascismo (tranne che per alcune nobili eccezioni, quali il Partito d’Azione). Anzi per molto, troppo tempo, la sinistra italiana ha associato all’ideale della libertà individuale il rischio dell’ingiustizia. All’aspirazione ad essere liberi, l’esito della disuguaglianza. Alla protezione dei diritti individuali più in generale, la mal celata pretesa della borghesia di conservare ed estendere il proprio potere economico.
Tutto questo ha contribuito al ritardo culturale del nostro Paese. Un ritardo che oggi diventa sempre più evidente e pericoloso di fronte all’ondata populista che, in nome di un popolo presunto, immaginario e arbitrariamente descritto, può travolgere le più basilari garanzie individuali. Essere consapevoli di questo ritardo condurrebbe già a compiere un passo in avanti. È una consapevolezza che soprattutto la sinistra deve acquisire. Se così non fosse, oltre a dubitare dell’esistenza in questo Paese di forze progressiste, bisognerebbe rassegnarsi all’abituale isolamento di chi si schiera a difesa dello Stato di diritto. L’ossessione di Sciascia rimarrebbe tale e a poco servirebbe constatare che chi, come lo scrittore siciliano a suo tempo, intende coniugare diritto e giustizia in verità ha ragione.