Cara Left Wing,
qualche settimana fa sono andato a vedere una mostra fotografica. Era esposta nel Museo Diocesano di Milano, un posto le cui mura fanno spesso concorrenza alle opere che ospitano. Il titolo era Fotografie in carcere; e quelle erano immagini scattate da Margherita Lazzati nel carcere di massima sicurezza di Opera a partire dal 2011. Cinquantotto fotografie selezionate fra oltre tremila, con l’obiettivo di mostrare le manifestazioni della libertà religiosa all’interno, appunto, di una struttura carceraria. Non è però della mostra che ti voglio parlare (bella, emozionante, la lista degli aggettivi di apprezzamento sarebbe lunga). O meglio: ti voglio parlare di una cosa specifica, che ha un suo valore simbolico e spesso i simboli sono tutto quello che abbiamo per provare a capire quanto ci sta davanti agli occhi ma non siamo capaci di comprendere.
Diversi volti, fra le decine e decine di quelli ritratti ed esposti, erano oscurati. Non so quale sia il termine tecnico, non parlo di pecette o macchie scure; hai presente quando inizi a passare la gomma da cancellare su un disegno o una scritta e a un certo punto si perdono tutti i contorni e non si riconosce più l’originale? Ecco, quello. Il motivo di quell’oscuramento era semplice: mancava, per rifiuto o per impossibilità di richiesta, la liberatoria concessa dal detenuto alla pubblicazione. Ma fra tutti quelli che si trovavano in quella condizione, uno spiccava. Nell’immagine l’uomo stava con le spalle appoggiate a un muro, affiancato ad altri quattro o cinque, apparentemente in attesa di qualcuno o qualcosa. La fotografa aveva scattato l’immagine, l’aveva sviluppata e selezionata e poi era stata aiutata a rintracciare le persone che aveva ritratto. Arrivata a quell’ultimo uomo questo aveva guardato la fotografia che gli era stata messa in mano e con un tono quasi di scusa aveva risposto: signora, mi dispiace, ma non posso darle il permesso. Forse lei non lo sa, ma in carcere non si possono tenere specchi se non quelli piccolini da campeggio. Io sono qui dentro da tanto, tanto tempo e non mi guardo in uno specchio da non mi ricordo nemmeno più quanto. Non so più che faccia ho, signora: io non so se quello che lei mi sta facendo vedere sono davvero io.
Questa scena l’ho sentita raccontare proprio da Margherita Lazzati, che era lì in una mattina di fine dicembre con un gruppo di amici venuti a visitare lei e la sua mostra: e me la sono portata dietro da allora. Perché te la racconto? Perché come te e come molti altri mi interesso delle cose della politica del nostro paese; cose come le decisioni economiche, ma in questo periodo anche e forse soprattutto quelle sociali, quelle che in qualche modo sembrano avere di più a che fare con la definizione di ciò che siamo e vogliamo essere come persone: i decreti sicurezza, gli accordi con la Libia, gli interventi sulle strutture di accoglienza e di aiuto al successivo inserimento, la cittadinanza con i diritti che questa si porta dietro.
Ecco, quel pezzo specifico di comunità del quale sento confusamente di fare ancora parte – non so dirti se più per abitudine o per convinzione – mi sembra assomigliare sempre più a quel detenuto che non sa più riconoscersi perché non sa più che faccia ha, e quando non sai chi sei puoi essere chiunque, anche chi non avresti mai pensato e voluto diventare. C’è, cara Left Wing, una sola differenza tra quel detenuto e quel pezzo specifico di comunità di cui ti parlo e che so che tu conosci e al quale tieni ancora più di me: a noi non c’è nessuno che vieti di tenere in casa uno specchio a grandezza naturale. Forse è che non ci vogliamo più passare davanti e fermarci a guardare ciò che siamo diventati.