Ne I Promessi Sposi l’erudito Don Ferrante, di fronte alla peste che dilaga, non crede alla possibilità del contagio della malattia poiché non logicamente riconducibile a nessuna delle categorie classiche aristoteliche su cui, egli crede, dovrebbe fondarsi qualsiasi ragionamento per essere valido. Non prende quindi alcuna precauzione contro il contagio, si ammala di peste e muore. Ecco perché “sindrome di Don Ferrante” è stata denominata da Nicolò Lipari, qualche anno fa, la tendenza dei giuristi contemporanei a classificare l’esperienza con categorie tradizionali inadeguate rispetto a fenomeni sociali e istituzionali inediti.
Oggi tutti sembrano soffrire della sindrome di Don Ferrante di fronte a un evento, come l’epidemia di Coronavirus, in grado di generare effetti sconvolgenti. Ne soffrono soprattutto gli intellettuali, ovvero coloro che sarebbero chiamati a fornire chiavi di lettura efficaci. La sindrome di cui parlo non ha nulla a che vedere con la negazione del contagio da Coronavirus, ovviamente. È una sindrome concettuale, che conduce a inquadrare forzatamente fatti nuovi, per certi versi imprevedibili e incomprensibili, in una cornice di concetti e significati noti e predefiniti, correndo così il rischio di non decodificare efficacemente ciò che di nuovo accade o, peggio, di negare, come Don Ferrante, l’esistenza dei fatti stessi in quanto non riconducibili a categorie già conosciute. È una sindrome da cui non si può veramente guarire, sebbene ci sia chi ne è affetto in misura maggiore di altri. Si compirebbe un passo in avanti acquisendo almeno la consapevolezza di questa malattia comune. E invece abbiamo assistito alla reviviscenza di categorie buone per tutte le stagioni, dallo Stato di eccezione all’autoritarismo. In alcuni casi, le riflessioni sono più che legittime. Penso alla preoccupazione per la tenuta dello Stato di diritto e della democrazia di fronte a una prolungata restrizione delle libertà civili. Questo, però, non toglie che si tratti di riflessioni affette dalla sindrome di cui sopra.
Le vicende che stiamo vivendo vengono quasi sempre affrontate, in questi giorni, come fenomeni riconducibili alla concezione tradizionale della regolazione sociale e politica. C’è quindi chi grida all’inefficienza della classe dirigente, chi alla strumentalizzazione in chiave autoritaria da parte degli organi di governo, chi, addirittura, a misteriose trame internazionali. Pochi, mi sembra, sono coloro che, invece, si sforzano di comprendere in che misura la lotta contro un virus comporti, a monte, modelli di lettura radicalmente differenti rispetto a quelli tradizionali e, di conseguenza, per noi ignoti. Pochi, ad esempio, rilevano come, a differenza di quanto accade di fronte ad un attacco militare, terroristico o in presenza di un colpo di stato, la matrice ultima dei recenti provvedimenti istituzionali sia tutt’altro che squisitamente politica. Le decisioni che stanno incidendo così profondamente sulla vita di ciascuno di noi sono infatti dettate da un sapere distante da quello politico, ovvero il sapere scientifico che, tra l’altro, appare spesso incerto e ondivago. Equivale quindi ad una distorsione della realtà l’immagine di un governo che strumentalizza l’emergenza per acquisire maggiore potere sui cittadini. I governi, e non solo quello italiano, stanno, a ben vedere, subendo l’emergenza data dall’epidemia di Coronavirus. Rincorrono gli eventi affidandosi con affanno, e a volte confusamente, alle indicazioni degli esperti. Non c’è nessun sovrano che decide sullo Stato d’eccezione semplicemente perché l’emergenza (cosa profondamente diversa dallo Stato d’eccezione di cui parlava Carl Schmitt) è franata sui governi; non c’è nessun potere manipolatorio, perché molto semplicemente siamo di fronte a un potere nudo e strutturalmente incapace di governare il fenomeno. Non a caso, in Cecità di José Saramago, il romanzo che più di altri ha immaginato gli effetti sociali ed esistenziali di un’epidemia ingestibile, le istituzioni fatalmente crollano.
Non intendo dire che non ci siano state scelte politiche e che non siano stati commessi errori da parte dei governi. Né esonerare nessuno dalle proprie responsabilità. Il punto è che non si tratta di scelte politiche eminenti, strategiche, decisive, perché non potevano e non possono esserlo di fronte a ciò che sta accadendo. Siamo di fronte ad una pandemia scoppiata nell’era della tecnica avanzata. Proprio questo rappresenta di per sé un fenomeno inedito che non può essere letto con le categorie tradizionali. Basta provare a isolare alcuni fattori per comprenderne la portata. In primo luogo, i virus, quali agenti dell’attacco che subiamo, non sono soggetti politici e non rispondono quindi alla logica dell’intenzionalità e della contrapposizione politica a cui si può reagire con le previsioni strategiche. Sono dei parassiti obbligati. Le loro dimensioni variano dai 28 ai 200 nanometri (miliardesimi di metro), di conseguenza sono visibili solo al microscopio elettronico e, politicamente, invisibili. In secondo luogo, si tratta di un’epidemia che cavalca la condizione dell’uomo nell’era della tecnica. Di un uomo cioè che ha così tanto moltiplicato le sue appendici tecnologiche, quali mezzi che servono per conoscere e agire, sino a diventare egli stesso un prodotto tecnologico. La tecnologia, infatti, ricade incessantemente sull’uomo e sulla società: con un effetto di rimbalzo si riflette costantemente indietro foggiando il nostro modo di essere uomini. Ebbene, l’uomo nell’era della tecnica è il principale veicolo dell’epidemia poiché, in quanto prodotto tecnologico, non può fare a meno di essere se stesso, quindi di dare vita ad attività economiche e produttive (sono queste quelle più rilevanti) globalmente interconnesse dal punto di vista tecnico, con tutto ciò che ne consegue rispetto alla mobilità, ai trasporti, alle esposizioni a sostanze di qualsiasi tipo, alle interazioni umane. In terzo luogo, l’epidemia, sviluppandosi nel terreno fertile dell’interdipendenza globale, non può, nella sua portata generale, essere “governata” da nessun soggetto tradizionalmente statale o regionale (ha ragione Luigi Ferrajoli a richiamare di questi tempi la necessità di un costituzionalismo globale).
La combinazione inedita di questi fattori ci consente quindi di individuare, quanto meno, il campo generale che dovremmo esplorare ulteriormente per leggere e comprendere questo fenomeno, soprattutto in previsione futura. Si tratta, credo, del rapporto tra l’uomo e l’ambiente per come si è consolidato nell’era della tecnica avanzata. Un rapporto evidentemente distorto per le esigenze delle forze di produzione e per lo stile di vita che, di conseguenza, ci appartiene. Il rapporto di dominio dell’uomo sull’ambiente è sempre più controproducente per la vita dell’uomo. L’ambiente su cui viaggia il virus non è un ambiente astratto e immutato. È l’ambiente storicamente prodotto dall’uomo; è l’ambiente dell’inquinamento globale; è l’ambiente che produce i salti di specie dei virus a causa della manipolazione della fauna che, a sua volta, genera le malattie infettive trasmesse dagli animali; è l’ambiente, come spiegano report scientifici accreditati, della deforestazione che crea condizioni favorevoli alla proliferazione dei virus. Come noti studiosi quali, tra gli altri, Eugene Stoermer e Paul Crutzen, hanno da tempo suggerito, l’ambiente di cui stiamo parlando è quello che consente di far riferimento ad una nuova epoca geologica, l’antropocene. Si tratta dell’epoca attuale nella quale l’uomo e le sue attività rappresentano la causa principale delle modifiche ambientali, sul piano territoriale, strutturale e climatico. L’impronta dell’essere umano sull’ecosistema globale è sempre più marcata. Il peso delle attività antropiche incredibilmente rilevante.
Dinanzi a tutto questo, possiamo seriamente pensare di leggere le dinamiche e gli effetti di una pandemia nell’era globale tecnicamente avanzata con l’armamentario concettuale del XIX e del XX secolo? Forse, e auspicabilmente, l’effetto più dirompente, a lungo termine, delle vicende di questi giorni sarà la consapevolezza dell’inadeguatezza dei nostri stili di vita, delle nostre categorie e delle istituzioni che a tali categorie corrispondono. Forse capiremo quanto sia urgente una politica interna mondiale fondata su una profonda inversione della direzione oggi assunta dal processo di civilizzazione. Forse capiremo che la categoria del politico, per avere ancora oggi un senso, deve abbandonare la logica oppositiva amico/nemico. Se lo scenario è quello dell’antropocene, se questo piano concettuale può aiutarci ad attenuare gli effetti dell’inevitabile sindrome di Don Ferrante, capiremo che la politica dovrà sempre più fare i conti con una nuova contrapposizione fondativa: quella tra l’uomo e se stesso; tra l’uomo e, in particolare, ciò che ha prodotto, ovvero un ambiente deliberatamente manipolato.