Cara Left Wing,
era passata circa una settimana dall’inizio del lockdown – o comunque tu lo voglia chiamare, quella cosa lì: non esco-esco, quarantena, autocertificazione, guanti-mascherina-gel – quando mi è arrivato un messaggio da un amico che vive a Sarajevo. Prima dell’ingenuo e commovente «se posso fare qualcosa per te, ti prego chiedi e farò del mio meglio» mi ha scritto «tutto questo – le notizie e le immagini che arrivavano dall’Italia – ci ha ricordato i tempi della guerra e cosa significa essere rinchiusi». La frase mi ha colpito perché in mezzo a tante fesserie a sfondo bellico dette e scritte da chi teorizzava la prima guerra della storia combattuta dalle trincee del divano questa spiccava per essere sia la meno violenta sia quella più radicata nella realtà: se non altro perché scritta da uno che la guerra sa cos’è.
Mi ha colpito abbastanza da farmi ripensare a quella città e a quel paese, per capire se c’era qualche lezione da imparare, qualche esperienza altrui sulla quale appoggiarsi e farla tornare utile in una terra diversa. Erano i giorni del picco, qui in Lombardia: non quello delle infezioni e delle morti, che doveva ancora arrivare – e nessuno ancora può dire, nel momento in cui scrivo, se sia stato raggiunto – ma quello delle canzoni sui balconi, degli inni sparati sfondando le casse dello stereo di casa, dei lenzuoli e delle frasi motivazionali. Il primo pensiero, letto il messaggio del mio amico, è stato «beh, tutto passa. Prima o poi le cose passano, le giornate brutte arrivano a sera, le guerre e le epidemie finiscono in un giorno banale come quello che le ha viste iniziare».
Poi, però, mi è tornato in mente il pomeriggio di agosto nel quale ho attraversato Sarajevo Est sul cui municipio ho visto campeggiare quattro gigantografie celebrative di Ratko Mladić, un signore condannato all’ergastolo per genocidio; e ho ricordato la frase che sentii pronunciare da un’anziana signora poco dopo averci offerto il meraviglioso caffè bosniaco nella sua piccola casa a pochi minuti dalla riva della Drina, raccontando delle scaramucce provocate un paio di giorni prima da provocatori venuti dall’altra parte del fiume, dalla Serbia: «Anche l’altra volta è iniziata così». Cosa mi dicevano quei ricordi di un viaggio fatto pochi mesi prima? Mettendola giù dura, che non si impara nulla dal passato anche se questo è stato vissuto con l’insensata, positiva fiducia che a volte gli umani riversano nelle cose che fanno: vale sempre la pena ricordare che una buona parte dell’Europa culla della civiltà occidentale pensò che fosse una buona idea combattere una seconda guerra mondiale meno di ventuno anni dopo aver terminato – e perso rovinosamente – la prima, e alla parte restante toccò prima strabuzzare gli occhi e poi mettere sul piatto qualche milione di morti aggiuntivi per rimettere a posto le cose, almeno fino al prossimo massacro da mandare in onda al telegiornale della sera.
Ma le cose raramente sono così nette, cara Left Wing. A un chilometro dal municipio che onora un criminale si trova quel che rimane di un tunnel. Il Tunnel, la maiuscola non è usata a caso. Era la galleria sotterranea che serviva in gran parte a consentire la fuga dei sarajevesi dall’assedio messo in atto dalle truppe del criminale, e in parte minore a far rientrare in città cibo, sigarette, carburante, armi e persino qualche persona. Abbiamo un modo di dire che fa parte del nostro vocabolario quotidiano, la luce in fondo al tunnel: la vedo o non la vedo, in un caso provo speranza e sollievo, nell’altro sconforto e pena. È un’espressione che viene da lontano, dalla notte dei tempi, dalle nostre paure più profonde e indicibili delle quali il buio è certamente una delle più antiche e terrorizzanti: ed è un’espressione che non può essere pronunciata senza una venatura di incertezza perché anche quando la luce la vedi – o ti pare di vederla – non puoi evitare di chiederti che cosa davvero ti sta aspettando di là, se sarà meglio di ciò che stai abbandonando, di ciò da cui stai fuggendo.
Il messaggio del mio amico mi ha portato a galla un terzo ricordo, quello di un uomo che mi ha raccontato di aver percorso quel tunnel tante volte da non ricordarsele nemmeno più, per ogni volta che usciva per andare al fronte del Monte Igman ce n’era una che lo faceva tornare a casa, dove la casa era un palazzo attaccato alla prima linea dei combattimenti cittadini. Lo faceva perché aveva un piano per il suo futuro, voleva fare il dentista, continuava a studiare per quello, con metodo e applicazione e tigna durante le sue licenze. Era il piano semplice di un uomo semplice: ma era un piano. Insomma, cara Left Wing, mi è sembrato di capire questo: che dalle difficoltà – come quelle che stiamo vivendo noi: le guerre sono un’altra cosa ma tocca sempre citare Moretti in queste occasioni – si esce un po’ per cieco ottimismo, quello dei meme, delle catene su Whatsapp, dei lenzuoli ai balconi, dei chitarristi su Piazza Navona, degli applausi a medici e infermieri, e molto mettendosi a tavolino con un’idea di futuro: in piccolo per i singoli individui, in grande per la collettività. Quando ti ho chiesto consigli su cosa scrivere in questo pezzo mi hai risposto «No disfattismo, neanche scemenzismo motivazionale o ottimismo fesso»: la risposta che riguarda il piccolo mi pare in linea, quella sui massimi sistemi scegli tu dove collocarla.
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Sergio Pilu è autore di Il Tunnel – Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia