Cambiare per ripartire davvero

Nessun operatore culturale dovrà essere lasciato solo durante questa drammatica crisi. Sono le parole importanti con le quali il ministro Franceschini ha annunciato un pacchetto di misure di sostegno per il settore. E ha fatto non bene, ma benissimo perché la crisi è davvero grave e profonda soprattutto per un mondo che non sa ancora quando davvero potrà tornare alla normalità. E quindi quelle misure di protezione servono e servono subito. Però, se vogliamo essere sinceri e dirci tutta la verità, le difficoltà che in questi giorni diventano drammatiche c’erano tutte anche prima dell’arrivo del virus. Che, in questo come in altri settori, sta fungendo da amplificatore di problemi e malfunzionamenti preesistenti e stratificati da tempo. Se è così complicato non lasciare nessuno solo è proprio perché il modo in cui la cultura italiana (non) funziona da decenni rende quasi impossibile addirittura delimitare un perimetro esatto dei lavoratori coinvolti.

Ma allora viene da chiedersi se in una condizione così terribile sia sufficiente limitarsi alle sacrosante e tempestive misure di protezione immaginate dal governo o se non si possa osare qualcosa di più. Non pensando solo a far sopravvivere il sistema culturale italiano e a traghettarlo al di là dell’emergenza così com’è, ma utilizzare questa fase anche per ripensarlo, ridefinirlo. E per correggerne le storture, scardinando le soffocanti posizioni dominanti, abbattendo le paratie che impediscono l’accesso a tante energie innovative e creative, ripensando tempi e spazi di un sistema a volte chiuso ed escludente, superandone i limiti strutturali e – perché no? – ridefinendone la visione di fondo.

Insomma, per dirla facile, non rassegniamoci al fatto che superata l’emergenza tutto ciò che mai ha funzionato debba continuare a non funzionare esattamente come prima. Ma per riuscire in un cimento così ambizioso occorre una grande elaborazione collettiva che veda protagonisti soprattutto coloro che non hanno rendite di posizione da difendere. E la capacità di tenere insieme interventi immediati e visione futura. Magari cominciando da quello che dovrebbe essere ovvio, ma ovvio non è mai stato: fare cultura è un lavoro. E il lavoro è tale se è dignitoso, sicuro, giusto.

Fateci caso, ogni volta che parliamo di politiche per la cultura finiamo inevitabilmente a discutere di contenitori. E a ragionare intorno alla loro definizione e organizzazione. Tutto ruota intorno alle scatole che ospitano la cultura che, per quanto possano essere importanti, sono appunto solo scatole. A fare grande un’opera è lo statuto giuridico del teatro che la ospita o il talento e la professionalità di chi la porta in scena? Risposta ovvia e scontata in teoria, ma assai meno per le norme che quotidianamente applichiamo. Perché quelle professionalità e quei talenti sono continuamente umiliati, soffocati, sfruttati, dimenticati. Ancora oggi affermare che fare cultura, fare arte, salire su un palco per recitare o cantare è un lavoro è quasi rivoluzionario. La realtà è fatta di pochi diritti, garanzie quasi nulle, aspirazioni a un trattamento pensionistico decente inesistenti. Le nostre gabbie normative faticano a leggere una professione che spesso è subordinata e autonoma nello stesso momento, intermittente ma a suo modo continua.

Ma deve per forza essere così per sempre? O possiamo, proprio nel momento in cui l’amplificatore della pandemia evidenzia tutta la drammaticità di questo modello, iniziare a metterci mano? Perché non ragionare su uno statuto del lavoro culturale e creativo che rimoduli un sistema di welfare specifico ed equo per questo settore disegnando un sistema di diritti, tutele, garanzie tali da consentire di svolgere queste professioni dignitosamente? Una messa a sistema del lavoro creativo, culturale e artistico, che ricomprenda anche il lavoro dei tecnici nei diversi ambiti di attività, che affronti e superi i nodi e le disfunzioni delle quali si discute da anni, racchiudendo finalmente in un testo normativo specifico e coordinato le tipologie di contratto attraverso le quali si realizza e viene protetto il lavoro dei creativi, degli artisti e dei tecnici; per arrivare a riconoscere i “tempi di non lavoro” dei lavoratori del settore creativo, culturale e artistico, quali parte integrante della loro normale vita lavorativa e professionale, stabilendo misure e forme adeguate di welfare specifico, a partire dalla previdenza dei lavoratori dello spettacolo; e per creare le condizioni indispensabili per il dialogo tra le regole del lavoro di settore e del suo mercato, la legislazione sul diritto d’autore e le norme sull’accesso alla previdenza e alla protezione sociale.

Speculare al problema del lavoro è quello dell’impresa culturale. Che nel nostro paese ha preso molte e talvolta improbabili forme giuridiche. Associazioni che in realtà fanno impresa, e imprese che son più simili ad associazioni. Una giungla di fantasiosi espedienti interpretativi delle norme che sono figli non della volontà di evadere o eludere, ma della disperata ricerca di un modo di far quadrare i conti e mantenere in vita una dimensione professionale e lavorativa. Compito assai arduo per le specificità di un settore come quello culturale che, privo di una normativa che sostenga ove possibile la sua imprenditorializzazione, rischia di rimanere schiacciato dalle dinamiche di mercato e quindi recluso in un limbo indefinito in cui appunto proliferano e si creano ingiustizie e diseguaglianze.

Anche qui la domanda è sempre la stessa: non può che andare così o possiamo disegnare un vestito su misura per attività come quelle culturali e creative, che tenga conto della dimensione dell’impresa e delle diversità di servizi e prodotti, le cui specificità sono così evidentemente diverse da tutte le altre? Per un locale che fa musica dal vivo sarebbe più facile e conveniente occuparsi solo di cucina e somministrazione invece di impiegare le proprie risorse finanziarie (a partire dalla Siae da pagare) per dare l’occasione di un palcoscenico a giovani talenti.

È giusto che sia così o non andrebbe forse in qualche modo incentivato e sostenuto nella sua attività culturale? Lo stesso ragionamento vale anche per tutti quei presidi sul territorio che operano al servizio della comunità con azioni ed iniziative di carattere culturale, in modo costante e sistematico, anche qualora svolgano attività commerciale. Prima di tutto queste imprese vanno economicamente sostenute nella fase della convivenza con il virus, tenendo conto delle loro specifiche caratteristiche. Credito d’imposta per l’acquisto di attrezzature e materiale per la sanificazione e distanziamento, sostegno per la sanificazione anche di sale prova, scuole di musica, studi di produzione; sospensione dei pagamenti di tasse e contributi fino a tre mesi dalla completa riapertura dell’attività anche per le associazioni culturali, sospensione della Tari per l’intero periodo di chiusura e concessione gratuita del suolo pubblico antistante i locali per i primi quattro mesi di riapertura: queste le minime misure per ripartire.

Ma, in prospettiva, l’Italia ha bisogno di vere e proprie politiche industriali per la cultura e la creatività: tax shelter e tax credit per produttori e organizzatori di concerti, agevolazioni tariffarie per i locali, un’unica aliquota Iva per tutto ciò che concerne la messa in scena di uno spettacolo, estensione delle agevolazioni fiscali per il sostegno da parte dei privati, tempi certi nei pagamenti di Regioni ed enti locali. Ma anche norme che consentano l’emersione dei gruppi musicali e dei singoli musicisti ponendo un tetto massimo di tasse alle partite Iva (ad esempio 15% per cover ed orchestre, 5% per musica inedita fino a 10.000 euro annui, oltre che voucher per i dopolavoristi). Più in generale è indispensabile dare una regolamentazione chiara alle strutture giuridiche dell’impresa culturale e ai relativi carichi fiscali, così da consentire la strutturazione imprenditoriale e l’accesso al credito ed evitare ampie sacche di evasione. Inoltre, servono politiche di sostegno alla domanda e al consumo culturale, accanto alla giusta attenzione da dare alle produzioni innovative come ai nuovi mestieri legati alla creatività digitale e alla necessità di dare un supporto strutturale alla circuitazione all’estero degli artisti italiani.

E poi c’è naturalmente il tema di quanto, e soprattutto di come, la produzione culturale debba essere finanziata. Da decenni ormai tutto ruota intorno a uno strumento, il Fus, che doveva essere transitorio ed è ancora lì, croce e delizia di migliaia di operatori. Una parte del sistema vive (o muore) a seconda della capacità di accedere a quel canale di finanziamento e all’ormai anche qui dominante algoritmo. Nella crisi giustamente sono state stanziate risorse per proteggere anche i “figli di un dio minore” che non godono di questo finanziamento. Ma, una volta usciti dall’emergenza, la soluzione strutturale non può essere quella di creare un Fus dei piccoli che ne replichi le modalità e i difetti. Perché non è moltiplicando pigramente strumenti imperfetti che si risolvono i problemi da essi creati.

Ancora una volta, proviamo a fare lo sforzo di non partire da ciò che già c’è, quindi dagli strumenti, ma dagli obiettivi che dovremmo dare al sistema. Serve sostenere economicamente la produzione culturale? Ovvio che se siete arrivati a leggere fino a qui ne siete convinti anche voi. Ma perché occorre farlo? E cosa ha più bisogno del sostegno pubblico? Dobbiamo limitarci a coltivare tradizione e repertorio? O possiamo legare il finanziamento, quale che sia lo strumento con cui viene erogato, almeno in parte alla promozione dell’innovazione? Conosciamo l’obiezione: già avviene. Non è proprio così.

Quello che bisogna combattere è la rigidità di un sistema di finanziamento che cristallizza la realtà senza essere capace di rinnovarsi con essa; e anche le eccessive concentrazioni che questo sistema favorisce e che spesso vengono replicate anche a livello locale, soffocando la diversità e la specificità. Spesso ci concentriamo sugli spazi della tradizione – anche e soprattutto perché non ce ne sono altri e non si fa nulla per crearli e lasciarli vivere – e questo è un altro problema strutturale del sistema che soffoca la creatività indipendente. Non è questione di finanziamenti di serie A e di serie B ma bisogna ripensare il finanziamento dello spettacolo dal vivo ponendo degli obblighi più stringenti alle strutture cosiddette storiche in termini di innovazione e investimento su giovani produzioni per fare in modo che si attivi un meccanismo di redistribuzione, con una ricaduta che i finanziamenti assegnati devono avere su tutta la filiera della produzione artistica, anche indipendente.

Chi riceve dei fondi pubblici, a volte cospicui, ha una precisa responsabilità in termini di rischio artistico e quindi di programmazione di artisti emergenti e produzioni indipendenti e bisognerebbe condizionare a questo in modo più stringente i fondi assegnati e la loro erogazione, molto più di quanto non avvenga oggi, anche con penalizzazioni pesanti (così come nell’immediato si dovrebbe condizionare per tutti, fondazioni lirico-sinfoniche comprese, l’erogazione del Fus per il 2020/2021 almeno al pagamento dei costi artistici). Sono condotte che non possono essere affidate alla buona volontà o alla coscienza dei singoli. Al tempo stesso occorre immaginare dei canali di finanziamento statale per le nuove realtà artistiche che non ricalchino i medesimi meccanismi e siano meno rigidi e più vicini al mondo reale della produzione artistica contemporanea, con la sua complessità e le sue sfumature, pur senza sacrificare l’individuazione di criteri che identifichino il carattere professionale dell’attività artistica. Deve essere più facile avere un’occasione, non mantenerla nel tempo.

Per la musica leggera (che già chiamarla così è abbastanza assurdo), soprattutto quella emergente, bisognerebbe pensare un finanziamento che sia modulato sulle sue caratteristiche. Noi riteniamo che non sia sufficiente il sistema di redistribuzione delle risorse del diritto d’autore da parte della Siae, soggetto privato che svolge anche funzioni di carattere pubblico, con modalità che andrebbero radicalmente ripensate per garantire maggiore equità e redistribuzione, a partire dal fatto – ad esempio – che i grandi network potrebbero pagare direttamente i diritti anziché affidarsi esclusivamente all’attuale sistema di ripartizione dei diritti di ritrasmissione o dalla possibilità di ridefinire il rapporto con i locali dove si svolge la musica dal vivo.

E a proposito di scatole che non funzionano ma vincolano con il loro peso la nostra capacità di innovare, di certo se potessimo ridisegnare il sistema partendo da un foglio bianco, il tratto della nostra matita non disegnerebbe mai una cosa come questa Siae. Si può dire? Se ne può parlare? O ce la dobbiamo tenere così? Insomma, la musica d’autore e pop ha una storia lunga, e come il jazz che ha superato i cento anni, nasce nei locali e nei club che ne sono il vero cuore pulsante, ed è parte della storia culturale e artistica del paese: merita rispetto, finanziamenti alla filiera e il dovuto sostegno del Ministero della Cultura. Così come sono necessarie organizzazioni realmente rappresentative del mondo della musica, e dello spettacolo dal vivo più in generale, che facciano veramente gli interessi di tutto il settore. Ma anche riuscissimo a fare tutto questo, non sarebbe sufficiente senza un grande polmone di sviluppo della creatività, di sostegno alla domanda culturale, di produzione e distribuzione.

Serve una Rai che ridefinisca il suo profilo in questo settore. Non più un’azienda che compra creatività all’esterno, consegnandosi al potere di agenti e case di produzione più forti, ma una factory creativa che promuove innovazione, pluralismo produttivo e culturale e che cerca, propone e sostiene nuovi talenti. E nello stesso tempo difende la produzione culturale italiana, a partire – e sottolineo: a partire – dai settori più indipendenti, innovativi e, tuttavia, più marginalizzati della produzione culturale e creativa italiana. Perché siamo in un paese in cui da un lato esistono le effervescenze creative e dall’altro esiste un servizio pubblico che dovrebbe metterle in valore, cogliendo, tra l’altro, anche l’occasione di innovare la sua offerta, di incontrare nuovo pubblico potenziale giovanile che è da anni lontano dalla Rai e dalla televisione in genere, moltiplicare il numero dei suoi “fornitori” sciogliendo così il nodo delle posizioni dominanti che la inchiodano alla reiterazione e agli alti costi. Ma soprattutto, specie nel frangente che stiamo vivendo, di sostenere l’industria culturale nazionale, quella più fragile e al contempo più innovativa. Tuttavia, la Rai tradizionalmente è un’azienda poco permeabile alle novità, ai nuovi talenti e all’accoglienza di nuovi operatori che trovano enormi difficoltà anche soltanto ad entrare in contatto con soggetti e luoghi in cui si seleziona il prodotto potenziale.

La BBC da diversi anni ha adottato un sistema di commissioning che ha l’ambizione di essere equo e trasparente in grado di selezionare le idee migliori che si formano nelle società di produzione indipendenti che vogliono sottoporre un’idea per la radio, la tv o la piattaforma internet del gruppo. Attraverso questo sistema l’azienda apre, rapidamente, un «… dialogo creativo con i produttori che presentano le loro idee» garantendo al contempo la tutela del diritto d’autore sulle idee sottoposte. Aprirsi alla collettività dei produttori e della comunità dei creativi deve essere il prossimo rapidissimo passo che il servizio pubblico deve intraprendere. Insieme a questo si deve, crediamo, uscire dalla logica dei canali “specializzati” – televisivi o radiofonici – come unico tramite e mediatore per la diffusione di contenuti culturali, creativi, ancorché non mainstream.

La riproposizione, talvolta martellante, del “repertorio” inchioda la Rai, ma anche l’industria creativa italiana al passato, ai grandi gruppi, alle posizioni dominanti e relega il paese in una posizione marginale e ininfluente nel panorama delle industrie culturali internazionali, svilendo, insieme alla cultura italiana contemporanea, anche quella del passato che rischia di ridursi a semplice feticcio. Ma la Rai può dare subito un contributo a superare questa crisi con iniziative semplici e immediate: ad esempio stabilendo e rispettando quote di trasmissione per la musica italiana recente in ogni canale. E lanciando un bando aperto per format compatibili con le limitazioni logistiche di questa fase, così da pensare e produrre subito e non limitarsi a episodiche iniziative.

Mentre riflettiamo su tutto questo non commettiamo, però, il più grave degli errori: non rinunciamo proprio in questa fase al lavoro. Perché è giusto studiare un sistema di protezione sociale, ma è sbagliato studiare solo un sistema di protezione sociale. È vero, non sappiamo quando potremmo tornare ad assembrarci sotto un palco. O quando vedremo il sipario aprirsi in un teatro gremito. Ma questo non significa che dobbiamo aspettare quel momento per ripartire, perché in alcuni casi, con un po’ di creatività e con i giusti accorgimenti lo si può fare quasi subito, in piena sicurezza. Certo, occorre investire risorse pubbliche non solo nei sussidi ma anche per sostituirsi a finanziamenti privati in queste settimane inaccessibili.

A noi non serve una Netflix della cultura che offra oggi in digitale quello che non possiamo vedere dal vivo. La soluzione non può essere il “teatro in tv” inteso come trasmissione sulla tv di uno spettacolo pensato per il teatro. Come non può essere il concerto alla radio. Perché lo spettacolo dal vivo è tale se appunto è dal vivo, suonato o recitato davanti a un pubblico in carne ed ossa. E non dobbiamo rinunciarci nemmeno oggi: è fondamentale che i fondi stanziati dallo Stato per l’emergenza siano anche in parte trasferiti ai comuni per poter creare le condizioni di organizzare in sicurezza questa ed altre occasioni perché si possa recitare, danzare, suonare di fronte ad un pubblico, anche all’aperto, soprattutto nel periodo estivo.

Si possono studiare forme nuove da sperimentare durante l’emergenza, come l’opzione di utilizzare le nostre città, le loro piazze, le strade, i cortili come palchi naturali sui quali affacciano decine, centinaia di finestre e balconi dai quali i cittadini possono assistere agli spettacoli in tutta sicurezza. Ma anche immaginare situazioni simili a quelle che un tempo erano il drive-in per il cinema e i concerti e quant’altro possa essere messo in campo. E non solo. Bisogna attrezzare gli spazi – almeno alcuni – in modo che si possa andare in scena ed assistere ad uno spettacolo in piena sicurezza e, dove è possibile, utilizzare anche i teatri e gli spazi più tradizionali definendo criteri e protocolli seri e precisi e certi, sostenendo le strutture a livello organizzativo ed economico senza scaricare su queste responsabilità oltre che oneri (sanificare ogni sera dopo uno spettacolo è costoso, farlo male è penalmente perseguibile). Agire in questo senso è una responsabilità dello Stato, che deve farsene carico.

Lo streaming potrebbe avere un senso se vuol dire allargare la platea di un pubblico, il cui accesso ai luoghi di spettacolo sarebbe numericamente limitato, per ovvie ragioni di sicurezza. Non ha senso se diventa un alibi per non creare le condizioni perché lo spettacolo sia dal vivo. Chi dice che questo comparto sarà l’ultimo a riaprire evidentemente non considera chi vi opera un lavoratore. E considera la cultura un lusso. Esattamente i due pilastri della visione che fin qui ha reso questo settore così ingiusto, precario, fragile. Non possiamo accettare che si riparta da qui.

Insomma, agire subito per tamponare l’emergenza è fondamentale ma lo è altrettanto progettare un futuro diverso in cui artisti e operatori abbiano diritti e tutele, in cui chi sceglie di fare impresa in un settore così particolare sia sostenuto e non ostacolato, in cui lo Stato con i suoi strumenti coltivi e tuteli sì la tradizione, ma ancor di più promuova e sostenga l’innovazione. Possiamo provare a parlarne?

 
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