Lo scontro in diretta televisiva tra il ministro della Giustizia e il magistrato simbolo della lotta alla mafia rappresenta certamente un grave conflitto istituzionale, ma è soprattutto un duello quasi trascendente tra un’icona della moralità antimafia, elemento consustanziale all’etica del Movimento 5 Stelle, e il suo attuale rappresentante nel governo. Il giudice e il ministro dovranno chiarire nelle rispettive sedi istituzionali – Parlamento e Consiglio superiore della magistratura – che cosa sia accaduto, un chiarimento necessario per rimuovere ogni sospetto, ma negli sconquassi che ne seguiranno nella dottrina della fede un punto va messo in sicurezza.
Nel rispetto della legge, un ministro è libero di fare, disfare, cambiare idea, scegliere una persona per un incarico e poi sostituirla anche solo per capriccio, perché ha una responsabilità politica e risponde delle sue decisioni davanti al Parlamento e all’opinione pubblica, una responsabilità che va difesa a ogni costo. Una politica debole subisce questo scontro per paura di finire dalla parte sbagliata. Lo stesso Movimento 5 Stelle, lacerato, non reagisce rivendicando il valore assoluto dell’autonomia della politica ma ostentando tutta la propria purezza antimafia, cioè l’adesione incondizionata al dogma.
Così si rischia però di perdere di vista la conseguenza paradossale di questo scontro. Quando si introduce la leva dell’ortodossia antimafiosa come strumento di pressione nel dibattito politico, e il sospetto di eresia diventa uno stigma capace di inibire qualsiasi atto politico, si innesca un meccanismo pericoloso che consegna uno straordinario potere di condizionamento proprio al fenomeno mafioso che si vuole combattere, a cui a questo punto basterà costruire un sospetto, disseminare un’allusione per neutralizzare ogni nemico.