Se non c’è altro da dire, a proposito della verità e del suo rapporto con la democrazia, se è sufficientemente attendibile il quadro che ho tracciato fin qui nell’essenziale – senza arricchirlo ulteriormente (come pure è possibile), e senza entrare nelle pieghe della sua storia o nei dettagli di una sua possibile articolazione istituzionale –, se è attendibile nel senso che riporta effettivamente la communis opinio su cui poggia il sentimento democratico, com’è possibile allora che le società contemporanee si sentano minacciate da una pioggia di «post-verità» che inquinerebbero il dibattito pubblico, falsando le competizioni elettorali, alterando i meccanismi fondamentali del gioco democratico?
Se le democrazie rinunciano alla verità, in nome della tolleranza e del pluralismo delle opinioni, se è relativistica l’ideologia di sfondo, giusta la proposta di Kelsen, come avviene che debbano oggi preoccuparsi delle «circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica di quanto non sia l’appello alle emozioni e alle convinzioni personali»?
Linkiesta