Contro il regolismo, per una legge elettorale proporzionale

Sono passati trent’anni dalla crisi di sistema del 1992. Una crisi che fu raccontata come la fine della partitocrazia e la nascita della Seconda Repubblica, ma che oggi in pochi, con il senno di poi, avrebbero ancora il coraggio di definire così. Comunque si giudichi quel passaggio, però, su un punto dovremmo essere tutti d’accordo: trent’anni sono un tempo ragionevole per tirare un bilancio. È dunque venuto il momento di misurare obiettivi dichiarati e risultati raggiunti, per valutare laicamente costi e benefici delle scelte compiute.

La scelta decisiva compiuta allora, con il referendum del 1993, fu il ripudio del sistema proporzionale, in favore di un sistema maggioritario-bipolare, fondato su coalizioni pre-elettorali capaci di garantire al cittadino – così almeno si diceva – la possibilità di decidere direttamente, con il voto, il governo e la maggioranza (e di fatto anche il presidente del Consiglio), sottraendo dunque al parlamento (e di fatto anche al presidente della Repubblica) qualunque ruolo al riguardo.

Il sistema elettorale doveva, quindi, assegnare al vincitore una maggioranza tale da garantirgli di governare fino alla fine della legislatura, con la squadra e secondo il programma presentati in campagna elettorale. In tal modo, assicuravano i promotori, si sarebbero risolti una volta per tutte gli antichi problemi dell’instabilità dei governi e della frammentazione politica. È un fatto incontrovertibile che le cose, in questi trent’anni, non sono andate nella direzione auspicata.

Da quando abbiamo abbandonato il proporzionale, evidentemente, tutto abbiamo avuto meno che stabilità: sin dalla primissima prova, con il cosiddetto Mattarellum, quando nel 1994 Silvio Berlusconi poteva presentarsi alla guida di ben due coalizioni, in parte persino contrapposte (i candidati di Alleanza nazionale, che al Sud correva con Forza Italia sotto le insegne del Polo del Buongoverno, si presentavano al Nord contro i candidati del Polo delle libertà, vale a dire Forza Italia e Lega).

Dal 1994 a oggi nessun governo è mai arrivato alla fine della legislatura, con l’unica parziale eccezione della legislatura 2001-2006, in cui vi fu un cambio di governo, ma sempre di centrodestra e sempre a guida Berlusconi.

In poche parole il maggioritario di coalizione, nelle sue molteplici varianti, non ha dato stabilità ai governi, né assicurato centralità alla scelta del cittadino-elettore. In compenso, le coalizioni del bipolarismo all’italiana hanno trovato il loro collante principale nella delegittimazione politica e morale dell’avversario, con la conseguenza di una fortissima instabilità nell’attività legislativa: numerose riforme di segno opposto hanno destabilizzato scuola, università, mercato del lavoro, sistema fiscale e sanità, con gli effetti su ampliamento dei divari, impoverimento e crollo demografico che sono sotto gli occhi di tutti. Solo quando, per ragioni internazionali, di un governo e di un assetto politico funzionanti non si è potuto proprio fare a meno, i principi del bipolarismo di coalizione sono stati di fatto sospesi (salvo non trarne alcuna conseguenza e ricominciare da capo appena passata la tempesta).

Nei momenti di crisi, infatti, siamo tornati al dettato costituzionale, secondo cui l’Italia è una repubblica parlamentare, e abbiamo silenziosamente accantonato, senza dirlo esplicitamente, lo «spirito del maggioritario» e la finzione del vincitore eletto direttamente dal popolo la sera stessa del voto. La prima volta nel 1995, con il governo Dini, per poter entrare nell’euro. La seconda nel 2011, con il governo Monti, per poterci restare. Per non parlare di quel che è accaduto nell’incredibile legislatura cominciata nel 2018, con i due governi Conte e poi con il governo Draghi, nessuno dei quali aveva la benché minima somiglianza con gli schieramenti, i programmi e i leader che si erano presentati alle elezioni.

È da oltre un decennio che l’Italia non ha un governo che non sia nato in parlamento da un accordo tra forze che si erano contrapposte alle elezioni: dal governo Monti (2011), governo di larghe intese per definizione, al governo Letta (2013), cui inizialmente diede la fiducia anche il Pdl, ai governi di centrosinistra guidati da Renzi (2014) e Gentiloni (2016), che si reggevano grazie all’accordo con una forza di nome «Nuovo centrodestra», nata in parlamento da una scissione del Pdl in procinto di ritrasformarsi in Forza Italia (a proposito di stabilità e frammentazione), fino ai due governi Conte, M5s-Lega (2018) e M5s-Pd (2019), nati entrambi da accordi post-elettorali tra avversari, per arrivare infine al governo Draghi.

Come mai ogniqualvolta il paese si è trovato sull’orlo dell’abisso ha dovuto accantonare i principi tanto sbandierati del bipolarismo maggioritario e affrettarsi a comporre la più classica delle formule parlamentari in un sistema proporzionale, vale a dire un governo di grande coalizione? Da cosa nascono queste crisi ricorrenti?

Per capirlo bisogna risalire all’inizio degli anni novanta, alla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, quando il problema più urgente del paese appariva l’esplosione del debito pubblico, conseguenza dell’insostenibilità del modello di sviluppo consolidatosi negli anni ottanta.

All’origine del debito stava un compromesso sociale che si basava, da un lato, su bassi salari, bassa produttività e uso distorto della spesa pubblica, in particolare pensionistica; dall’altro, su un sistema delle imprese che si vedeva compensato di tutti i limiti e le distorsioni che avevano caratterizzato lo sviluppo del paese da un’ampia possibilità di evasione fiscale, ma anche dalla politica di ripetute svalutazioni della lira, che andava a beneficio dell’industria esportatrice; tra questi due estremi, si espandeva nel frattempo un ceto medio che godeva tutti i benefici del «circolo vizioso della rendita», con pesanti ricadute sullo stesso debito pubblico e sulle dinamiche dello sviluppo.

All’inizio degli anni novanta, pertanto, il livello raggiunto dal debito e la scelta di entrare nell’Unione monetaria europea rendevano necessaria una radicale riscrittura di questo compromesso. Ma proprio allora, quando cioè più che mai il paese avrebbe avuto bisogno di forze politiche in grado di scomporre le coalizioni di interessi attraverso il più spericolato gioco di alleanze politiche e sociali, per potere ripartire equamente i costi sociali e politici delle riforme, ecco che il nuovo sistema (il bipolarismo di coalizione) costringeva tutte le maggiori forze politiche nei due poli di centrosinistra e centrodestra, i quali si dividevano tra loro la rappresentanza dei diversi blocchi d’interessi così com’erano, rendendone praticamente impossibile la scomposizione (anzi, accrescendo in tal modo il loro peso relativo all’interno di ciascuna coalizione, e accrescendo di conseguenza il loro potere di veto).

Di qui il paradosso di un sistema politico in cui le diverse forze proclamano all’unisono la necessità di riforme, ma non producono altro che un gioco statico di interdizione reciproca. L’Italia si tiene così buona parte degli squilibri ereditati dalla Prima Repubblica, trasformati ora in veri e propri totem dell’uno o dell’altro schieramento, caricati più che mai di valore ideologico, e perciò resi eterni.

E così il debito pubblico, dopo essere stato additato quale massima responsabilità del vecchio sistema – peccato originale della Prima Repubblica, della «partitocrazia» e del proporzionale – da allora a oggi, come è noto, è enormemente aumentato (ben prima della pandemia).

Non è un caso che in questi trent’anni ciascuna delle maggiori forze politiche presenti in parlamento, o prima o dopo, nei momenti di crisi, si sia rimangiata tutte le sue parole d’ordine sul bipolarismo e lo spirito del maggioritario, per collaborare con gli avversari ed evitare il tracollo, come è accaduto da ultimo con il governo Draghi, raccogliendo l’appello del presidente Mattarella. Ma una politica che funzioni solo quando c’è bel tempo, e che i suoi stessi promotori sono i primi ad accantonare quando arriva la tempesta, non è una politica sensata. Senza contare il fatto che in questo caso, come si è visto, non funziona nemmeno quando splende il sole.

Nulla è più pericoloso di un sistema in cui l’infrazione della norma diviene la regola. Ripetere che i cittadini hanno il diritto di eleggere direttamente il presidente del Consiglio, il governo e la maggioranza, quando non solo la Costituzione, ma la stessa concreta prassi parlamentare lo nega sistematicamente, significa delegittimare i partiti, la politica e il sistema democratico.

Il tentativo di affrontare il problema direttamente con una riforma costituzionale è stato compiuto da tutti gli schieramenti, sia per via parlamentare, attraverso un accordo bipartisan, nel 1997, con la bicamerale D’Alema, sia a colpi di maggioranza e con successivo referendum, da parte del centrodestra, nel 2005, sia infine con la riforma promossa da Renzi nel 2016, nata da un accordo bipartisan e arrivata a referendum in condizioni diverse. Nessuno dei suddetti tentativi è approdato a nulla. Sono falliti tutti. Almeno per quanto riguarda la questione centrale – ridisegnare un assetto costituzionale coerente con il nuovo sistema elettorale – nessuno dei suddetti tentativi ha lasciato la minima traccia.

Se ci si ferma un momento a pensare alla quantità di tempo, energie, documenti, dibattiti, incontri e scontri che si sono consumati attorno a tutto questo, si è colti da una vertigine. Se poi si aggiungono le infinite battaglie parlamentari e referendarie combattute attorno alle leggi elettorali, ci rendiamo conto che dal 1994 a oggi, in pratica, la politica italiana si è occupata quasi solo di questo. È diventata un gioco fine a sé stesso, completamente autoreferenziale, del tutto privo di senso: un gioco in cui si discute solo delle regole e non si gioca mai.

Ovviamente ciascuno dei giocatori ha pronta la soluzione, che è nell’una o nell’altra variante delle riforme elettorali e costituzionali tentate dal 1994 a oggi. Ovviamente ognuno è convinto che la sua sarebbe la soluzione ideale, se solo tutti gli altri se ne convincessero e gliela lasciassero realizzare. E così il tira e molla continua, e l’unico effetto concreto è che ognuno, quando i rapporti di forza parlamentari glielo consentono, si sente autorizzato a riscrivere la legge elettorale a proprio vantaggio. Un tratto tipico dei paesi democraticamente più arretrati, che accomuna l’Italia alle più fragili democrazie del sud del mondo.

Il primo passo verso la guarigione è sempre la presa di coscienza. Uscire dalla fase della negazione è operazione lunga e dolorosa, ma inevitabile. Occorre dunque esaminare con pazienza alcune reazioni tipiche che in questi trent’anni hanno sbarrato il passo a qualunque tentativo anche solo di segnalare il problema.

Uno degli argomenti ricorrenti riguarda la questione dell’alternanza, che sarebbe il grande risultato ottenuto con il maggioritario e il bipolarismo. Tipico sofisma in cui si confondono successione temporale e relazione causale («post hoc, ergo propter hoc»).

Il motivo per cui dagli anni novanta in poi abbiamo avuto l’alternanza di governo non va cercato nel fatto che nel 1993 abbiamo cambiato la legge elettorale, ma nel fatto che nel 1991 è crollata l’Unione sovietica. Se nel quarantennio precedente abbiamo avuto una democrazia bloccata non è perché fino al 1993 c’era la proporzionale, ma perché fino al 1989 c’era il muro di Berlino. Il motivo è che fino a quel momento il principale partito dell’opposizione al governo non ci poteva andare per ragioni internazionali.

Semmai, si può dire il contrario: il motivo per cui il proporzionale è durato così a lungo è che, in quel contesto, non si poteva pensare di applicare lo spoils system e tenere una così larga parte del paese senza effettiva rappresentanza a tempo indeterminato, ed è questo il vero motivo per cui il tentativo degasperiano della cosiddetta legge truffa, il primo tentativo di introduzione di un premio di maggioranza, nel 1953, sollevò la reazione che sollevò, e fu sconfitto in quel modo. Lezione su cui evidentemente le classi dirigenti della cosiddetta Seconda Repubblica non hanno riflettuto abbastanza.

Sostenere che il proporzionale ci riporterebbe alla democrazia bloccata della Prima Repubblica è dunque un controsenso e un anacronismo.

Continuare a sostenere la tesi del ritorno alla palude e al «grande centro», come si fa da trent’anni proiettando l’ombra della balena bianca su partitini centristi che non hanno mai raggiunto la doppia cifra, e già è tanto se superano lo zero virgola, è la più ridicola delle prese in giro. Tanto più ridicola dopo quello che abbiamo visto in questa legislatura, in cui abbiamo avuto tutte le combinazioni di governo possibili, a conferma del fatto che tornare a parlare di «conventio ad excludendum», nell’Italia di oggi, è una barzelletta.

Un altro argomento ricorrente, più serio almeno sul piano logico, è l’esempio dei sindaci, che sarebbe la dimostrazione di come la riforma elettorale, almeno in un caso, abbia funzionato. Non si potrebbe dunque estendere il modello a livello nazionale? È la proposta, avanzata già alcuni decenni or sono da Mario Segni, del «sindaco d’Italia».

Anche qui, per prima cosa, bisognerebbe però approfittare del passare del tempo e dell’esperienza maturata. La cosiddetta «rivoluzione dei sindaci» dei primi anni novanta ha avuto luci e ombre, che qui non ci interessa discutere. Ma per quanto riguarda la possibilità di trarne un modello per il funzionamento di governo e parlamento, occorre considerare con attenzione che la «governabilità» garantita dal nuovo sistema è divenuta in alcuni casi – a nord come al sud, a destra come a sinistra – inamovibilità di un intero sistema di potere, con tutti i guasti tipici dell’assenza di ricambio e di reale contendibilità del governo, tanto più concreti a livello locale. In altre parole, l’esatto opposto delle motivazioni con cui la scelta per il maggioritario era stata compiuta, quando i suoi promotori si scagliavano contro la «democrazia bloccata». Un effetto collaterale che forse non è senza relazione con il drammatico crollo dell’affluenza registrato tornata dopo tornata, ben superiore a quanto si è osservato nel frattempo a livello nazionale.

Accanto a numerosi esempi positivi, in cui nuove leadership hanno potuto emergere e consolidare rapporti più stretti e diretti con l’elettorato, il meccanismo maggioritario-presidenzialista a livello locale ha prodotto leadership ventennali, inamovibili dal continuum Comuni-Regioni, a volte anche contro la loro stessa volontà. A conferma di quanto l’unzione plebiscitaria possa dimostrarsi una trappola non solo per il paese, ma alla fine dei conti per lo stesso leader che s’illude di trarne beneficio. La democrazia bloccata può rivelarsi una prigione anche per lui.

Il parallelo con i sindaci è però fuorviante per una ragione di fondo: il sindaco, rispetto agli equilibri politici del comune, è insieme presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, è eletto direttamente dal popolo, è l’unico arbitro della formazione della giunta e opera praticamente senza contrappesi. E se questo ha prodotto a livello locale molte delle storture sopra ricordate, ben più pesanti sarebbero i rischi se davvero si volesse applicare un simile schema a governo e parlamento, laddove si tratta degli interessi e dei diritti di tutti i cittadini. Se a livello locale i molti esempi positivi lasciano quanto meno aperto il dibattito sul rapporto costi-benefici del sistema elettorale delle comunali, è indiscutibile che a livello nazionale, data la posta in gioco, i rischi sarebbero infinitamente superiori a qualunque ipotetico vantaggio.

Ad ogni modo, comunque si giudichi quel modello, una cosa è sicura: l’esempio dei sindaci, se davvero lo si volesse seguire, non è l’esempio di una possibile riforma della legge elettorale, ma di una radicale riforma costituzionale. Dunque, semmai, andrebbe discussa in quel contesto, come una proposta di riforma presidenzialista. Non per niente un’altra proposta ricorrente, parente prossima del modello dei sindaci, riguarda il modello francese: doppio turno e semipresidenzialismo.

Alle osservazioni già formulate vale la pena di aggiungere in proposito un semplice dato di cronaca: entrambi i candidati al ballottaggio delle presidenziali francesi – sia Emmanuel Macron sia Marine Le Pen – hanno messo al centro dei rispettivi programmi, come risposta alla crisi democratica, proprio «la proportionnelle», cioè una riforma della legge elettorale che miri a una correzione (parziale o totale) in senso proporzionale dell’attuale sistema.

Il punto di fondo resta però sempre lo stesso: quanto possiamo andare avanti così? Si può pensare di impiegare un’altra legislatura a combattersi in nome dell’ennesima riforma di sistema che non approderà a nulla, ancora una volta? L’effetto di autodelegittimazione per tutte le forze politiche non è un danno infinitamente superiore a qualunque eventuale vantaggio tattico, anche tralasciando l’implacabile dato statistico sul risultato autolesionistico di simili manovre, anzitutto per chi le conduce?

Il problema, evidentemente, non si risolverà ricominciando ancora una volta da capo, ripetendo per l’ennesima volta gli stessi slogan e incamminandoci ancora una volta lungo la stessa strada, su cui giriamo in tondo da tre decenni. L’argomento secondo cui il «vero maggioritario» non lo avremmo mai nemmeno provato – sia esso l’uninominale all’inglese, il doppio turno alla francese, il bipartitismo all’americana, con tutti i relativi corredi istituzionali – somiglia al modo in cui i comunisti degli anni ottanta si ostinavano a difendere le loro tesi. Il sistema era perfetto – dicevano – era solo stato applicato male, o non abbastanza, o non abbastanza a lungo.

Dire che la teoria è giusta ed è stata solo applicata male significa non volere fare i conti con la realtà. Sono trent’anni che tentiamo di applicarla, in tutti i modi possibili: se anche la soluzione migliore fosse davvero l’unica non ancora sperimentata, vuol dire che evidentemente non siamo in grado nemmeno di sperimentarla. Dopo trent’anni, dobbiamo riconoscere che il tempo degli esperimenti è scaduto. Siamo ormai molto oltre l’accanimento terapeutico.

Bisogna rompere questo gioco, in cui ognuno pensa sempre di essere più furbo dell’altro e finisce sempre per pentirsene, salvo ricascarci un minuto dopo. Il miraggio del doping maggioritario è una droga che ha condotto tutti i leader politici e tutti i partiti all’autodistruzione, facendo dell’Italia il paese dei record in Europa per numero di partiti nati e morti nel corso degli anni che ci separano dal 1992.

L’unica decisiva e urgente riforma da fare è quella che consente di togliere le regole del gioco dalla disponibilità del momentaneo vincitore. Anche per il suo bene, come si è visto. Perché alla tentazione di «fare cappotto» la società italiana reagisce sistematicamente chiudendosi a riccio e facendo immediatamente fronte comune contro il presunto tiranno: per questo nella politica italiana si passa così rapidamente dagli altari alla polvere.

Per questo è bene sgomberare il campo da ogni equivoco e da ogni tentazione, una volta per tutte. Tanto più oggi che il taglio dei parlamentari ha reso ogni ulteriore “esperimento” ancora più gravido di rischi per il complessivo equilibrio dei poteri.

Per prendere atto della realtà e uscire da questa spirale c’è una cosa sola da fare: tornare a un vero sistema proporzionale.

Ogni partito si presenta con il suo simbolo, il suo leader, il suo programma e i suoi candidati, e prende i voti su quelli. Gli accordi di governo si faranno quindi in parlamento, sulla base della reale rappresentatività di ciascuna forza, mettendo fuori gioco i mille micro-partiti e pseudo-movimenti che finora, contrariamente alla retorica invalsa in questi anni, hanno prosperato proprio grazie al «gioco sul margine» dei collegi, decidendo le sorti del paese, decretando la vita o la morte di interi governi.

In nome del bipolarismo e della governabilità, per quasi venti anni si sono promossi referendum, leggi elettorali e riforme istituzionali, il cui esito concreto è stato però l’esatto contrario di quanto promesso: trasformismo e ingovernabilità. Di qui il crescente discredito della politica, una tigre che non tarda a sbranare chiunque s’illuda di cavalcarla.

Tornare alla proporzionale non significa dunque costruire l’ennesimo castello di carte, l’ennesima grande riforma che non approderà a nulla, l’ennesima barocca discussione sulle regole fine a sé stessa, è bensì l’azzeramento della discussione viziata dal regolismo. È l’uscita da questo trentennale circolo vizioso. Ed è forse l’unico modo possibile di restituire agli italiani partiti politici degni di questo nome.

Tornare al proporzionale, senza coalizioni pre-elettorali, senza premi di maggioranza, con una robusta soglia di sbarramento, significa ripristinare su basi più solide il rapporto tra eletti ed elettori. Significa cioè ristabilire un rapporto trasparente, coerente e lineare tra parole e atti, ruolo dei partiti e ruolo del parlamento, Costituzione e legge elettorale.

Significa, soprattutto, restituire all’Italia un sistema istituzionale capace di invertire l’angosciante tendenza al declino economico, sociale e demografico. Un destino cui il paese sembra condannato da quando ha abbandonato un linguaggio istituzionale condiviso nel nome di una paradossale reciproca delegittimazione che ha corroso la nostra vita pubblica e la nostra tenuta democratica.

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