La sinistra riformista ha dovuto affrontare la questione del pacifismo nel 1999, quando l’Italia ha offerto basi e uomini a sostegno dell’intervento Nato in Kosovo. Un nazionalismo si candidava a tenere o rimettere insieme con la violenza quello che i regimi comunisti non erano più in grado di unificare, e il pacifismo integrale, inteso come rifiuto in linea di principio dell’uso della forza nei contesti internazionali, si rivelava incapace di affrontare i tempi nuovi: era pur sempre un figlio della seconda guerra mondiale, come la divisione in due dell’Europa, e una manifestazione dell’impossibilità di una politica estera europea negli anni dal 1945 al 1989.
L’Europa degli anni novanta era finalmente unita. Il diritto internazionale si proponeva di sostituire l’equilibrio tra le due superpotenze che gestivano le proprie sfere d’influenza senza tollerare intromissioni. La frammentazione del mondo vedeva esplodere nuove violenze, spesso di carattere etnico-religioso, che richiedevano una risposta multilaterale ma che non escludesse l’uso della forza, come il massacro di Srebrenica aveva tragicamente dimostrato. Emergeva insomma il problema della difesa dei diritti umani e del diritto internazionale, in un mondo che fino a quel momento era stato congelato dalla deterrenza nucleare.
Il tardivo intervento Nato in Kosovo, la coda delle guerre in ex-Iugoslavia, è stata l’occasione in cui la parte della sinistra italiana sopravvissuta alle macerie del muro di Berlino ha abbracciato la linea dell’interventismo democratico e umanitario, al prezzo di una profonda revisione delle proprie parole d’ordine, attirandosi violente critiche sia alla sua sinistra sia dal mondo cattolico.
Tra le numerose obiezioni di principio la più velenosa attribuiva la ragione della partecipazione italiana alla necessità di assecondare un diktat statunitense, svendendo la tradizione di politica estera della sinistra. Il tempo, galantuomo, si sarebbe incaricato di dimostrare che, almeno per una volta, era un giudizio ingeneroso. Se infatti la sinistra italiana ha sostenuto con relativa convinzione l’intervento in Afghanistan, giustificato del rifiuto del governo dei Mullah di consegnare alla giustizia internazionale Osama bin Laden e i suoi complici, molto ferma è stata la sua opposizione al disastroso intervento della Coalition of the willing in Iraq che, prescindendo dal giudizio storico sul sanguinario e autocratico regime di Saddam Hussein, non era giustificabile con la guerra al terrore dichiarata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
La politica internazionale ha segnato così, progressivamente, una parte dell’identità politica della sinistra riformista, affinandone la sensibilità alla difesa dei diritti umani, al multilateralismo e al diritto-dovere di intervenire con le armi dove e quando sia necessario. Come in ogni cosa della seconda repubblica si è trattato di un processo contrastato, mai del tutto concluso, ma di valore, anche perché conquistato dentro una grande battaglia politica, la stessa da cui alla fine è nato il Partito democratico.
La scelta del Partito democratico di sostenere l’Ucraina nella guerra che la Federazione Russa le ha mosso è una scelta in continuità con quel percorso per numerose ed evidenti ragioni, di cui la principale è la sua assoluta semplicità interpretativa: una potenza nucleare invade uno stato vicino, di cui sarebbe garante per l’integrità e la sicurezza a norma di due trattati internazionali, con l’obiettivo di riportarlo nella sua sfera di influenza, impedendone il percorso di adesione all’Unione Europea. Per dirla con le parole di Andrea Graziosi: “Sarebbe sbagliato vedere il conflitto russo-ucraino come il conflitto tra due classici nazionalismi di tipo etnolinguistico. Lo scontro tra Mosca e Kyïv e la decisione di invadere l’Ucraina sono piuttosto e prima di tutto, anche se non solo, il prodotto […] di due fenomeni nuovi, incarnati da due diverse concezioni di cosa siano uno Stato e una società e di come essi possano rigenerarsi. La prima si basa sulla necessità di creare un nuovo mondo «russo», ma non etnicamente solo tale, come risposta al declino e alla corruzione di ciò che chiamiamo Occidente. La seconda ha invece il suo nucleo nella inattesa trasformazione di un nazionalismo tradizionale […] verso una visione aperta del paese che non rinnega il suo passato e le sue identità ma le usa per costruirne una nuova, che guarda anche verso quell’«Occidente corrotto»”.*
La storia ha infatti consegnato all’Ucraina una posizione difficile: con lei, la Russia è impero proteso verso l’Europa; senza, è uno stato, di enorme estensione, ma semplice stato tra pari. Questa caratteristica è da duecento anni la ragione per cui “perdere l’Ucraina” a causa del suo movimento nazionale è stato l’incubo degli Zar, di Stalin e oggi di Putin, disposti a qualsiasi massacro pur di evitarlo. A questo si aggiunga che, dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, provocato proprio dalla secessione della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, il paese ha preso una strada chiaramente divergente da quella della Federazione Russa, manifestando la volontà di scommettere sulla conquista della democrazia, di liberarsi dalla corruzione endemica e aderire all’Unione europea. Un tentativo pieno di limiti e spesso circondato dall’assoluta indifferenza internazionale ma anche coraggioso, che in anni recenti ha portato migliaia di persone in piazza a rischio della vita prima, e migliaia di soldati e volontari al fronte poi. Un percorso che ferisce particolarmente l’oligarchia di Putin, perché alternativo al percorso oscurantista e autoritario che ha intrapreso.
Ogni slancio di questo tipo ha trovato nella Russia di Putin un ostacolo pronto a sostenere brogli elettorali in favore dei partiti e degli oligarchi amici, a ricorrere al ricatto energetico sul gas, a compiere spregiudicate operazioni di guerra ibrida per indebolire lo stato, a inventare e armare gruppi paramilitari separatisti cercando di dare al conflitto una torsione etnica, fino ad arrivare all’invasione vera e propria con l’appello ai militari ucraini a tradire il proprio presidente in cambio della pace: altro che fine del Novecento. Se a spingere la Federazione Russa ad attaccare sono ossessioni geopolitiche, a spingere l’Ucraina a difendersi strenuamente, in luogo di una resa che ne cancellerebbe le aspirazioni, è una ragione che non ha a che fare con la fedeltà atlantica ma con la storia ucraina e le sue aspirazioni europee. Oltre che, banalmente, con l’istinto di sopravvivenza.
Come dovrebbe reagire la sinistra riformista se non schierandosi senza riserve dalla parte del paese aggredito, delle sue ragioni e delle sue aspirazioni? La priorità assoluta accordata ai diritti umani dalla fine della guerra fredda in poi dove ci può collocare se non a fianco dell’esercito e del popolo che resiste alle stragi di civili, ai bombardamenti indiscriminati, alle fosse comuni, alle camere di tortura, agli stupri, alle deportazioni, insomma a una guerra condotta nel modo che aveva già reso famigerato l’esercito russo e i mercenari che si porta al seguito? Con la loro storia e le loro aspirazioni gli ucraini stanno infrangendo la stupida bidimensionalità delle cartine geografiche delle riviste di geopolitica. Riconoscerle ci offre l’occasione per fare definitivamente i conti con le ferite lasciate dall’esperimento sovietico nelle coscienze nazionali dei paesi dell’est.
La guerra più novecentesca immaginabile è di fronte a noi, un nuovo evento periodizzante dopo l’11 settembre: la portata enorme dell’aggressione russa, il suo significato storico, la sentenza di condanna che emette nei confronti dell’Ucraina e dell’Europa, rende pericoloso ogni tatticismo, soprattutto per il ruolo chiave che finora ha giocato l’Italia. Un ruolo che va molto oltre gli aiuti su cui si è tanto polemizzato, accusando il governo Draghi di limitarsi a quelli perché privo di iniziativa diplomatica. Non nascondiamoci che, a differenza di quanto accaduto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la posizione europea sul sostegno all’Ucraina è stata spesso vacillante. Mentre il Parlamento europeo e la Commissione sono stati sempre fermi nella condanna della Russia e conseguenti nelle azioni, la tradizione di ostpolitik dei paesi del centro nord Europa, le vecchie e nuove convenienze e connivenze, i timori e in qualche caso le speranze legati al futuro ruolo di Donald Trump, hanno reso spesso scoordinata e poco assertiva la risposta dei paesi dell’Unione. Insomma, se l’anima federale dell’Unione europea ha reagito con forza, lo stesso non si può dire dei singoli paesi: Polonia e Ungheria, Francia e Germania, Svezia e Italia hanno spesso avuto posizioni e preoccupazioni diverse. Proprio il nostro paese e il suo governo di unità nazionale si sono incaricati non solo di assumere la famosa postura che ci viene riconosciuta, ma soprattutto di tenere insieme le due rive dell’Atlantico, compito possibile solo ad una figura dell’autorevolezza di Mario Draghi.
Questa funzione, che la presidente Meloni cerca di mantenere, è parte del patrimonio dei democratici. Ed è un patrimonio che serve al paese e all’Europa, tanto più in presenza di una destra americana virtualmente pronta a mettere in discussione la Nato, per cercare un rapporto esclusivo tra superpotenze vere e presunte, emarginando l’Europa.
I sostenitori sinceri dell’Europa federale, per avanzare in concreto sia sul piano politico che su quello della difesa comune, si devono misurare ora con le ragioni dell’Ucraina: per la prima volta il processo di espansione dell’Unione europea incontra sulla sua strada un esercito ostile anziché dei miti funzionari ministeriali. Sarà la capacità di sostenere l’uso della forza contro la barbarie dei bombardamenti sui civili voluti da Putin a decretare un avanzamento verso l’Europa federale o la sua crisi, probabilmente definitiva, in favore della evocata “Europa delle nazioni”.
Oggi questo può avvenire, soprattutto di fronte alla reiterata minaccia nucleare, solo se è chiaro che il sostegno all’Ucraina non verrà meno finché la Russia non avrà rinunciato alle sue assurde pretese di conquista. Ogni ambiguità rischia di aprire una divergenza in sede europea che diventa un incoraggiamento nei confronti di Vladimir Putin, un invito ad alzare posta perché le minacce, il seme della divisione, la propaganda, il ricatto del gas, la minaccia nucleare possono rivelarsi efficaci.
Un problema di politica internazionale di questo livello non si può certo affrontare come una pura questione di principio, ed è evidente che l’approccio scelto dai paesi che sostengono l’Ucraina mira a circoscrivere il conflitto: non c’è spregiudicatezza di Putin che possa colmare il divario di tecnologia militare che separa i paesi occidentali dalla Russia e i suoi alleati e, in una guerra tradizionale, questo pesa moltissimo, soprattutto se unito alla ferrea determinazione mostrata dalla popolazione civile e dai soldati ucraini.
Anche in questa circostanza tutti speriamo che si arrivi al momento in cui le armi tacciono e i militari tornano in caserma lasciando il posto ai diplomatici. Ma fare finta di non capire che oggi questo non è ancora avvenuto per intera responsabilità della leadership russa, prendendosela con la tenace reazione degli ucraini – mettendola cioè moralmente alla pari con l’aggressione che subiscono – significa condurre un altro tipo di gioco. Un gioco politico.
È indubbio: una parte del nostro paese, che in parte vota a sinistra, vive con angoscia questi mesi e spera che tutto finisca il prima possibile, anche a costo di calpestare le ragioni di Zelensky e del suo paese. Ragiona con il cuore, con la testa, con la pancia? Inutile giudicare. È a questa parte del paese che si rivolgono, con un messaggio nella sostanza simile, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giuseppe Conte. Quest’ultimo, nello specifico, ha inserito la diversificazione della posizione sull’Ucraina da quella del Governo Draghi e del Pd all’interno di una campagna ostile nei confronti del suo vecchio alleato, volta a scalzarlo, anche sul piano simbolico, dal ruolo di partito garante delle varie tradizioni della sinistra italiana. Rispetto a questa offensiva il Pd può rispondere facendo la cosa più comoda: inseguendo i cinquestelle, interpretando l’opposizione come occasione nella quale sciogliersi dai faticosi vincoli della responsabilità nazionale e rinnegare il percorso che l’ha portato a distinguersi dal pacifismo integrale nel nome della ricerca di un ordine internazionale più giusto; oppure può fare la cosa più giusta: rivendicare la propria autonomia e spiegare le proprie ragioni fondandole, più che sugli obblighi di fedeltà atlantica (anche se va dato atto alla Nato che senza il suo sostegno oggi l’Ucraina sarebbe solo un ricordo), sulle ragioni e le voci degli ucraini, che non sono pedine del gioco delle potenze ma protagonisti assoluti e consapevoli del proprio destino e anche del nostro.
Il giusto, come succede quando è giusto davvero, si rivelerà anche utile.
*Andrea Graziosi: L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Editori Laterza, 2022