La cultura progressista si trova dinanzi a un singolare paradosso: per un verso resiste un certo senso comune, per il quale si guarda con qualche benevolenza alla parola, che viene ancora preferita, in genere, ai suoi antonimi (conservatore, o addirittura reazionario); per altro verso, però, le ragioni su cui poggia questa benevolenza si sono perdute. Perdute le “filosofie” o le “ideologie” che la sostenevano. Da un lato, le aspirazioni ad una maggiore uguaglianza e giustizia sociale formano ancora, insieme al lessico dei diritti, un sentimento condiviso; dall’altro, però, restano per l’appunto allo stato di vaghe aspirazioni, avendo perso tanto forza polemica, quanto capacità di soggettivazione: di formare cioè coscienza politica.
Sul risultato delle ultime elezioni politiche hanno sicuramente pesato errori dal gruppo dirigente, scelte poco convinte e spesso incoerenti, ma c’è un nodo più di fondo, su cui il partito democratico è chiamato a riflettere. Non per mero esercizio intellettuale, ma per un’esigenza esistenziale. Il nodo riguarda la capacità di rendere le proprie parole, le proprie culture politiche di riferimento, le proprie determinanti di fondo, chiare e riconoscibili nelle scelte che si compiono. Il problema è meno quello dei programmi (spesso tanto pletorici quanto inconcludenti) che quello della loro intellegibilità e del loro senso. Non le cose che si vogliono fare, insomma, ma perché le si vuol fare: questo è ciò che occorre che il Partito democratico dica con estrema chiarezza.
E dunque: che cosa hanno in comune parole come riformista, democratico, progressista, cioè le parole che più spesso usiamo per definire un partito di sinistra all’inizio del XXI secolo? Due cose: una in negativo, l’altra in positivo. In negativo: sono i termini ai quali si ricorre per non impiegare altre parole – socialista e popolare, comunista e democristiano – che provengono dalle famiglie politiche del ‘900. Se prevale questo tratto, l’orizzonte di significato del Pd rimarrà strutturalmente, inevitabilmente, scialbo, insipido, vuoto. Ma quelle parole condividono anche un tratto positivo: la fiducia nel futuro. Sono parole che scommettono sul futuro, che promettono un futuro migliore, più ampio e aperto, più giusto e libero. Il Partito democratico deve saper fare propria questa promessa. Deve saper fare della politica il luogo in cui torna ad avere un senso ragionare sul futuro, cioè su una cosa diversa da quella che c’è ora, in cui è possibile gettare fin d’ora lo sguardo e provare a tracciare qualche via. Fare, insomma, la guerra allo scetticismo diffuso e al cinismo imperante, che appestano l’aria e generano insicurezze, paure, risentimenti.
Il Pd deve fare una promessa sul futuro e renderla esplicita quando parla di transizione ecologica, quando parla di inclusione, quando parla di migrazioni, quando parla di trasformazione tecnologica e di lavoro, quando parla di formazione e nuovi saperi, quando usa parole come apertura, accesso, libertà, ospitalità, responsabilità. Non v’è chi non veda qui una sfida culturale di portata epocale, che riguarda l’intero ambito dell’agire politico e sociale. Dalle politiche securitarie alla medicina preventiva, dall’Internet of things alla gestione del rischio in materia di ambiente, dal dilagare della demoscopia all’ingegnerizzazione della finanza con gli stress test, abbiamo sempre meno parole sul futuro, e sempre più strategie per sterilizzarne i pericoli connessi alla sua impredicibilità.
Le nostre società hanno scelto non più di coltivare la speranza ma di gestire la paura. Di ridurre l’incertezza, non di progettare il nuovo. Rovesciare questo paradigma, riconquistare fiducia nel futuro, restituire dinamismo alla società: si può fare. E si può fare lungo tre linee. Che non definiscano coordinate astratte, ma modi di pensare e di agire in linea con la vocazione originaria del Partito democratico. Parlare del futuro è, infatti, cosa che un partito progressista non può non fare, ed è cosa che appartiene tanto al cattolicesimo democratico, che impiega al riguardo la parola “speranza”, quanto alla tradizione del movimento operaio, che ha frequentato il futuro come progetto di emancipazione.
La prima indicazione precisa il significato della parola “riformismo”. Il futuro non può essere lasciato – si diceva prima – allo stato di semplice aspirazione. Il futuro, per dirla con i filosofi, abita nei “possibili adiacenti”. Non, dunque, in regioni lontane ed astratte, velleitarie, ma nella prossimità immediata, ed imminente, delle nostre vite. Riformismo non può significare anzitutto un gesto di rinuncia rispetto ad obiettivi generali di trasformazione della società: anche in questo caso, non è il tratto negativo che deve prevalere ma quello positivo, per cui esso significa attenzione alla concretezza dei progetti di cambiamento, che non possono puntare solo su quel lungo periodo in cui, come diceva Keynes, saremo tutti morti. Solo così si chiamerà riforma un progetto politico popolare, capace di parlare alla maggioranza del paese.
La seconda indicazione declina il significato della parola “pluralismo”. Essere democratici significa confidare che la pluralità delle posizioni, la diversità delle opinioni, producano verità. Chi ha fiducia nella democrazia non ha bisogno di ancorare la società a verità preconfezionate, né ha nostalgia di società omogenee, uniformi, conformiste. Non ha bisogno di cancellare le differenze, ma vuole valorizzarle. Non teme la cacofonia delle voci, perché confida nella capacità di armonizzarle nella forma della convivenza democratica.
La terza indicazione arricchisce di significato la parola “uguaglianza”. Lottare per condizioni di maggiore uguaglianza sociale, significa dare alla parola “democrazia” la forza di un verbo, non di un nome: di un agire, più che di uno stato. Democrazia significa infatti democratizzare, ampliare o tenere aperti gli accessi ai beni pubblici dell’educazione, dell’istruzione, della salute, della sicurezza sociale. Democrazia significa ospitalità. E non è possibile essere ospitali se non su un piede di uguaglianza.
Se queste possono essere le coordinate generali del “credo” democratico, la domanda è se siano anche adeguate a misurarsi con le fratture della storia recenti. Viviamo infatti un tempo segnato da fratture, anche profonde, che segnano irreversibilmente il corso della storia, e determinano un prima e un dopo.
C’è un prima della pandemia e un dopo la pandemia, che impone di riconsiderare la dimensione dei problemi e il ruolo delle istituzioni pubbliche, nazionali e sovranazionali. Tanto la presunta autosufficienza dello Stato, quanto il fai-da-te di individui e singole comunità ne escono sconfessati. C’è un prima e un dopo la guerra in Ucraina: tanto le visioni ireniste della storia, quanto le giuridificazioni senza sostanza della politica ne escono parimenti sconfessate. C’è un prima e un dopo la crisi ambientale: che non consente più consumo irresponsabile di risorse, ma nemmeno autorizza fughe utopiche dal mondo. C’è un primo e un dopo la trasformazione tecnologica in corso, che non autorizza né le visioni scioccamente apocalittiche – da fine del mondo, fine del lavoro, fine dell’uomo – né quelle altrettanto scioccamente euforiche – che si spingono verso futuri del tutto immaginari, a cui manca il requisito fondamentale, di essere alla portata dei molti, e non di pochi fortunati.
C’è insomma una via da percorrere: stretta, certo, ma non necessariamente disagevole. E c’è una cultura politica democratica chiamata a disegnarla: a rimuovere gli ostacoli, come recita la Costituzione, perché lungo quella via si ritrovi il maggior numero possibile di persone. Tutte uguali, tutte diverse.