Il pane (e le rose). Considerazioni disordinate sul Pd

All’interno di un dibattito congressuale che si dimena tra forma-partito, gradi di separazione dal neo liberismo, fallimento o successo dell’esperimento Pd a quindici anni dalla nascita, mi piacerebbe partire da qualche notazione più pedestre.

Mi è stato chiesto di provare a scrivere come vorrei fosse il Pd. Vorrei, ho risposto, un partito di sinistra, riflessivo, democratico, popolare e anche amichevole. Il Pd che vedo da diversi anni, invece, è un partito freddo, distante, addirittura scostante e un po’ saccente. Un partito antipatico.

È un partito che più che aver smarrito la sua identità sembra averle moltiplicate, non nel senso di una positiva forma di pluralismo interno o della capacità di rettificarsi, ma di una crescente precarietà nella percezione della propria sostanza, della propria ragione d’essere. E, un po’ come accade nel disturbo di personalità multipla, il Pd e la sua dirigenza tendono a dimenticare di volta in volta quanto è accaduto sotto il dominio di altre identità. Il che potrebbe anche spiegare tanto l’ostinato ripetersi dei medesimi dibattiti, sempre uguali da lustri all’approssimarsi dei congressi o a seguito delle sconfitte o non vittorie elettorali, quanto certe ardite trasmutazioni di punti di vista e obiettivi politici.

Io vorrei un partito che sappia spiegare e che ancor prima sappia riflettere, elaborare, studiare, indagare la complessità dei fenomeni (sociali, economici, culturali) in maniera collegiale, metodicamente, attraverso il contributo di esperti, operatori dei diversi settori, utenti. Perché, per quanto possa essere faticoso e talvolta poco gratificante per l’ego, è solo così che si possono escogitare soluzioni, progettare visioni e anche utopie consonanti con la stessa ragione d’essere di un partito di sinistra.

L’alternativa è abdicare, come si è già fatto, all’approssimazione, al tatticismo o agli esercizi di stile da talk show abbandonando la strada dell’approfondimento, della scelta consapevole e responsabile di strategie politiche che non siano dettate dagli umori del momento, da ondate di paura o indignazione più o meno indotte, dalle ragioni delle alleanze o della gratificazione di gruppi di interessi economici circoscritti che non rappresentano necessariamente interessi generali.

Va detto che l’abolizione del finanziamento della politica, che il Pd non ha subito ma addirittura proposto e sostenuto grazie a una delle identità che l’hanno attraversato negli anni, ha limitato enormemente la possibilità di fare il genere di attività cui accennavo – lo studio, la ricerca, la progettazione – e ha trasformato l’assetto stesso dei partiti e in particolare del Partito democratico. E il successivo taglio dei parlamentari, rispetto al quale il Pd si è mostrato quanto meno volubile, votando contro tre volte per poi votare a favore, non ha contribuito a dare, dentro e fuori dal partito, un’idea di chiarezza, saldezza e coerenza.

La fine del finanziamento pubblico della politica ha fatto sì che la stessa esistenza materiale del partito scivolasse sempre più saldamente nella disponibilità di qualche decina di eletti, sempre meno dopo il taglio di 300 parlamentari, capaci di contribuire economicamente alla sua sussistenza e, di conseguenza, determinare, specie se si è parte di una delle effimere maggioranze interne, le decisioni, le scelte politiche, le candidature. Ed è questa, molto più delle correnti, la sciagura che sta consumando il Pd che, sempre meno simile ad una comunità di eguali, si sta trasformando in un governo di ottimati che spesso non si sentono neanche più in dovere di raccontare, e tanto meno di spiegare o giustificare, le scelte, le alleanze, le correzioni in corsa di statuti e regolamenti. Il problema, insisto, non sono correnti o componenti (considerate nocive quasi solo quando sono quelle degli altri) ma l’essere diventati un partito fatto quasi esclusivamente di un apparato politico che misura il proprio successo attraverso l’abilità di innervare con i loro contubernali le federazioni, gli organismi politici, le sezioni, ma anche, quando se ne presenta l’occasione, amministrazioni locali e ministeri, non sempre seguendo il principio della competenza.

Le comunità, politiche o meno, si reggono su patti di reciproca fiducia. Se il patto diventa una formalità, la comunità si disgrega, si rifugia nell’astensione o si affida ad altre offerte politiche. E nonostante ciò esiste ancora una comunità resistente (ma non si sa fino a quando) di 5 milioni di elettori che, malgrado tutto, rimane aggrappata all’utopia del Pd, non per come è, ma per come vorrebbero che fosse.

Tra l’altro l’idea che l’indipendenza economica sia la premessa per l’autonomia delle decisioni e dei comportamenti sembra valere per tutti gli ambiti fuorché per la politica e di qui sembrerebbe scaturire il sistematico evitamento e l’afasia sul tema del finanziamento pubblico della politica, della attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, della democrazia interna dei partiti. Può sembrare una questione marginale, ma per me è inevitabile fare riferimento a una circostanza che ferisce e infiacchisce da anni l’esistenza del Pd: gli oltre 100 dipendenti della Direzione nazionale appesi da più di un lustro alla CIGS, senza alcuna prospettiva che non sia quella della pensione o del definitivo licenziamento. È difficile intravedere coerenza, cura, attenzione per le competenze e per la propria comunità in questa rimozione, psicoanalitica oltre che materiale, che il Pd sta compiendo da anni nei confronti dei propri lavoratori, ignorati prima ancora che abbandonati.

E vorrei tornare sull’afasia del Pd, sul suo mutismo selettivo, sulla imperscrutabilità delle ragioni sottese a molte posizioni politiche – incomprensibili per buona parte dei suoi iscritti, del suo elettorato e, a maggior ragione, degli italiani – sulla fatica di assumersi fino in fondo il peso di battaglie politiche, queste sì davvero identitarie. Non si può essere insieme il partito della nazione e il campione della sinistra; essere sempre e comunque partito di governo anche quando non si governa e voler governare anche quando non si vincono le elezioni; rispondere a ogni richiamo alla responsabilità, da chiunque arrivi e senza condizioni; essere un partito femminista con una classe dirigente fatta, nella realtà delle cose, quasi esclusivamente di maschi e che elegge in parlamento meno di un terzo di donne; chiedere il superamento dei decreti Salvini e della legge Bossi-Fini, e votare il rifinanziamento della cosiddetta guardia costiera libica. Non si può rimuovere dal proprio orizzonte immediato il tema dei salari, quello del diritto all’abitare e insieme dichiararsi di sinistra. E non ci si può limitare a aggiungere la parola “lavoro” alla denominazione di un partito per riconquistare un ruolo a lungo intenzionalmente abbandonato (dimenticando, tra l’altro che «i nomi sono conseguenza delle cose», e non viceversa). Potrei continuare in questa facile elencazione di mancanze, trascuratezze, indecisioni, tatticismi, ma vorrei dire qualcosa su come vorrei fosse questo partito.

Vorrei fosse un partito che pensi al pane e anche alle rose, ai bisogni materiali delle persone prima di tutto ma anche a quelli immateriali, perché gli uni senza gli altri non permettono una vita piena alle persone. Lo sapeva Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma tra il 1976 e il 1979 in uno dei momenti più difficili della storia italiana, che attraverso una visione complessa e non una semplice tattica, partendo da un’idea di città e non da un modello astratto, diede case popolari e decine di migliaia di persone che vivevano nelle baracche, risanò e portò i servizi essenziali in molte periferie e insieme propose insieme a Renato Nicolini l’Estate Romana. Non c’è mostra o museo che possa migliorare lo stato della città se i suoi cittadini sono costretti a vivere in luoghi degradati e non ci sono condizioni materiali di vita abbastanza dignitose in grado di trasformare un abitante in cittadino se mancano biblioteche, buone scuole, parchi pubblici.

Salario, casa, sanità, istruzione, insieme all’ambiente, all’arte, la musica, la libertà, la serenità, alla possibilità di immaginare il proprio futuro: siamo davvero convinti di poter distinguere così nettamente cosa rappresenti il pane e cosa le rose? Non è così diverso per la artificiosa competizione tra i diritti sociali e i diritti civili. Perché le suffragette che all’inizio dello scorso secolo combattevano in America, chiedevano insieme il voto per le donne e l’abolizione del lavoro minorile. E il voto alle donne, il diritto dei bambini all’infanzia, erano diritti civili o diritti sociali? E la cittadinanza per i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri è davvero solo una questione di diritti civili o, invece, investe prima di tutto la libertà personale, il diritto a usufruire di tutti i servizi e i benefici dello stato sociale? Penso ad esempio al diritto dell’exchange year nella scuola superiore, o a quello di prendersi un anno sabatico dopo la maturità. Lo ius culturae non è solo un diritto civile, ma l’inevitabie premessa per la reale esigibilità e esercizio dei diritti sociali. È pane ed è anche rose. E il Pd non può retrocedere di fronte a questa battaglia.

E poi c’è il fondamentale tema della liberazione delle persone dalla paura. Da un lato, i timori che permeano la vita di tutti noi in momenti così complessi: l’inflazione che si mangia stipendi e risparmi, il timore di sprofondare nella precarietà e di essere espulsi da un sistema basato sulla segregazione di poveri e fragili dal “corpo sociale sano”. Se poi, parallelamente, si permette venga diffusa, senza quasi contrastarla, la tesi iper-liberista per cui, quale che sia il tuo potere contrattuale nel mercato, il lavoro lo devi cercare e trovare, che te la devi cavare con le tue sole forze, allora il gioco è fatto: thatcherianamente parlando, non esiste più la società, ma solo gli individui. E chi vince, per capacità personali, relazioni, eredità, fortuna, la partita del posizionamento sociale e economico, si prende tutto.

Alla paura generata dall’emarginazione ci si può opporre, al contrario, solo con più stato, più servizi pubblici, scuole migliori e con i paracadute sociali ed economici, con la ragionevole certezza che chi è in difficoltà possa trovare nella società gli strumenti, materiali e immateriali, per riprendere in mano la propria vita. Ma l’Italia è uno dei paesi OCSE con il rapporto più basso tra dipendenti pubblici e popolazione (nel 2017 era il 5,5 per cento, contro il 9,1 della Francia e il 6,4 della Spagna, senza considerare i paesi scandinavi che si attestano tutti abbondantemente sopra il 10 per cento) e con la media di età degli addetti più alta. Mi domando cosa ci sia di disdicevole nel volere uno stato che funzioni meglio, che decida di potenziare il proprio personale per offrire servizi migliori, che limiti le esternalizzazioni a quelle indispensabili, che offra classi meno affollate, medici e infermieri più soddisfatti, pazienti trattati meglio, città più pulite. Mi domando da quando rivendicare la funzione del pubblico o politiche redistributive sia diventato imbarazzante e non lo sia, neanche per molti esponenti di sinistra, parlare di laissez faire, fare l’occhiolino al trickle-down.

Le esperienze e la storia passata sembrano non aver lasciato tracce, per effetto di quell’oblio selettivo che colpisce il Pd. La crisi finanziaria del 2007-2008, quella del Covid e quella che viviamo in questi mesi, si sono sovrapposte amplificando i propri effetti e nuove paure tra i più fragili e poi su una classe media impoverita, la “neoplebe”, sempre più spesso costretta ai margini: della vita sociale e culturale, ai margini di città con affitti sempre più inarrivabili, di un dibattito politico che li riduce spesso a entità sociali astratte, indifferenziate al loro interno – i poveri, la classe media, i giovani, i disoccupati, gli occupabili – quasi oggetti di sperimentazione, di esercizi di teoria politica o economica. Le élite strutturate, spesso ossificate del nostro paese, raccomandano alla neoplebe di accontentarsi di quello che c’è, di non avere ambizioni, di dimenticare talento, formazione, esperienza per adattarsi a occupazioni precarie, con salari bassi e nessuna prospettiva di crescita: è questo il senso profondo della recente polemica sul “lavoro dei sogni”. Non posso evitare di domandarmi che futuro si prospetti a paese le cui élite chiedono, in effetti pretendono e addirittura impongono, di dissipare attitudini, istruzione e abilità dei cittadini.

Poi ci sono paure in gran parte indotte, quelle che istigano avversione, talvolta aggressività, verso l’immigrazione, la diversità – religiosa, culturale, sociale, di origine geografica – le povertà, il bisogno. Sono il genere di paure che inducono ad arroccarsi nel proprio bunker, a mettere i sacchi di sabbia vicino alla finestra, a rifugiarsi nella propria bolla, a rifiutare il confronto, la dialettica. Se poi queste paure vengono strumentalizzate, consolidate per finalità politiche e di controllo sociale, diventano endemiche nella società, la erodono e la logorano. Ed è proprio la libertà dalla paura, e non il pozzo senza fondo del diritto alla sicurezza, che vorrei perseguisse il mio partito: la libertà dalla paura del bisogno, della marginalità, dell’altro.

Infine una riflessione sulla cultura. Sento da anni dentro il mio partito parlare di cultura e creatività non come di un valore in sé ma come strumenti finalizzati ad uno sviluppo economico che, se ci soffermiamo su certe forme di over-tourism o sulla gentrificazione che hanno contagiato molte nostre città, neanche si è dimostrato fino ad oggi capace di ridistribuire la ricchezza prodotta tra tutti gli attori del sistema. Cultura e creatività devono essere al centro delle riflessioni di un grande partito di sinistra perché migliorano potentemente la qualità della vita delle persone, anche se non generano esternalità economiche positive immediatamente percepibili, anche se non determinano la rivalutazione dei prezzi degli immobili, anche se i musei e i teatri non hanno bilanci economici da startup di successo. E quindi la diffusione della cultura, è il fine e non un mezzo.

Invece intravedo da anni nel Pd una sorta di senso di colpa, quasi di vergogna o almeno di sottovalutazione della forza rivoluzionaria insita nella cultura, e lo scorgo nella superficialità e impreparazione di molti dirigenti nel parlare di cultura, nella faciloneria con cui si confondono cause ed effetti, nel non concentrarsi sul nucleo della questione, nella ricerca affannosa di alternative al necessario intervento pubblico in questo settore, nell’emarginare le politiche culturali nelle ultime pagine dei programmi elettorali. Le crisi economiche difficilmente sono state innescate dall’investimento pubblico nella cultura che, invece, spesso ha contribuito a migliorare nelle democrazie moderne prima di tutto la vita delle persone, il capitale umano e professionale di cittadini e lavoratori. La cultura libera dalle paure, crea cittadini consapevoli, curiosi, molto più competitivi anche, ma non solo, sul mercato delle conoscenze. Chi ha innescato le crisi, fino ad oggi, è stato il capitalismo neoliberista, è stato il mercato deregolamentato, è stato il ritrarsi della politica e del ruolo di pianificazione e controllo della parte pubblica.