Due anni fa l’American Economic Review, la più autorevole e citata rivista di economia al mondo, analizzava in un articolo i principali trend che caratterizzano le economie avanzate. La lista era lunga e spaziava dall’aumento della concentrazione dei mercati all’incremento dei profitti, dalla caduta della quota lavoro al continuo calo della produttività. Quell’elenco è una fotografia dell’attuale fase del capitalismo che bisogna capire, spiegare e riformare perché è proprio su quelle tendenze che si sono innestate prima le crescenti problematiche sociali e poi molte delle tendenze politiche che ben conosciamo.
L’Italia non vive su un altro pianeta. Di quelle dinamiche e di quei problemi soffre in misura forse più acuta degli altri per via di altre complicazioni, una delle quali è l’anacronismo dei riformisti. Negli ultimi trent’anni l’Italia – più per necessità che per autentica convinzione – è stata artefice di continui cambiamenti. Si è ormai perso il conto delle riforme della scuola, dell’Università, delle pensioni, del lavoro e della Pubblica Amministrazione che i vari governi hanno condotto in porto. Eppure i trend di lungo periodo dell’economia italiana non hanno mostrato alcuna inversione di tendenza. Anzi.
Abbiamo cercato di rendere più efficienti e competitivi i mercati per generare maggiori investimenti e innalzare il tasso di crescita, ma quello che osserviamo è un aumento della concentrazione, degli oligopoli e dei monopoli e una caduta tendenziale degli investimenti. Abbiamo reso più flessibile il mercato del lavoro per favorire il turn-over e l’innalzamento della produttività, ma abbiamo visto aumentare le diseguaglianze di reddito, peggiorare le retribuzioni medio/basse e cadere la produttività del lavoro. Abbiamo fornito incentivi a pioggia agli investimenti e all’innovazione, ma quello che osserviamo è la creazione di un gigantesco “sussidistan” e la crescente formazione di rendite. Abbiamo cercato di innalzare in tutti i modi la formazione del capitale umano, ma se guardiamo i dati notiamo una crescente divergenza fra le ambizioni dei nostri giovani e la bassa qualificazione media richiesta dal mercato (mancano i camerieri!). Da ultimo, abbiamo alimentato l’idea del welfare state come ospedale da campo del mercato: il capitalismo produce ricchezza e poi è lo Stato, con tasse e servizi, a redistribuire. Nonostante il pesante ridimensionamento delle risorse, il welfare italiano funziona abbastanza bene e nel tempo ha progressivamente migliorato la sua efficacia redistributiva. Il problema è che siccome la distribuzione primaria del reddito è nel frattempo fortemente peggiorata, l’ospedale da campo si è trovato invaso, e il welfare state non ce la fa più.
Che fare quindi? Quale il ruolo dei nuovi riformisti italiani? Come produrre un cambio di fase? A livello globale ed europeo ci sono molte cose che bisognerebbe impegnarsi a promuovere: nuove forme di controllo e di governo delle grandi imprese, ridefinizione dei diritti di proprietà (intellettuale) e della partecipazione rispetto ai processi d’innovazione tecnologica, regolazione dei sistemi finanziari in funzione dei loro rapporti con l’industria e con i risparmiatori, ribilanciamento della mobilità internazionale dei fattori produttivi, ridefinizione dei confini della potestà legislativa e impositiva rispetto alle grandi entità economico-finanziarie transnazionali, revisione dei trattati commerciali in chiave di equità economica e sociale, e molto altro ancora. Quello che possiamo fare a livello nazionale è invece attivarci per correggere le deviazioni (peggiorative) dal trend internazionale. Qui la lista potrebbe essere ancora più lunga, ma mi limito a tre osservazioni.
La prima è che l’Italia è ancora un paese ricco, ma dove da troppi anni la ricchezza non cresce più. L’immagine che chiarisce meglio di qualunque altra la situazione italiana è quella di una vasca da bagno mezza piena, dove però dal rubinetto entra ogni anno sempre meno acqua nuova. Questa situazione ha creato due effetti. Il primo è che in molte famiglie la rendita patrimoniale – sia finanziaria che non – ha lungamente sopperito alla modesta dinamica del reddito da lavoro e da impresa. Il secondo è che questa tendenza ha creato nel tempo un solco invalicabile fra chi “ha” e chi “non ha”, segnandone i destini sin dalla nascita. Con i rubinetti da cui sgorga poca acqua, se ti capita in sorte la famiglia con la vasca quasi vuota, la tua probabilità di riempirla è bassissima.
Queste due tendenze si sono ulteriormente aggravate nell’ultimo ventennio con la generale diminuzione dei tassi di interesse che, gonfiando i prezzi delle case – così come quelli di tutti gli altri asset – ha aumentato ancora di più la patrimonializzazione di buona parte delle famiglie italiane, accentuando ulteriormente la discrepanza fra reddito e patrimonio. Questo effetto ricchezza avrebbe potuto portare qualche beneficio al paese se questo fortunoso aumento del valore degli asset fosse stato sottoposto a qualche forma di tassazione, soprattutto di quelli che ci hanno guadagnato di più. Invece, proprio mentre avveniva questo arricchimento patrimoniale totalmente slegato da considerazioni di natura meritocratica, i vari governi che si sono succeduti agivano in direzione opposta a quella che ci si sarebbe potuti aspettare, abbassando o addirittura eliminando qualsiasi forma di imposizione sul patrimonio. È un trend che si è visto un po’ in tutta Europa, ma che in Italia – che già partiva da una situazione di forte discrepanza fra reddito e patrimonio – ha assunto dimensioni imbarazzanti. Le aliquote marginali per le successioni sono circa il 40% nel Regno Unito, il 50% in Germania, il 60% in Francia, e addirittura oltre l’80% in Belgio e in Spagna. In Italia, il paese più patrimonializzato del continente, è l’8% (ma fino al quarto grado di parentela è addirittura soltanto il 6%). Insomma, negli altri paesi europei, se la vasca di famiglia era piena, in media ti tolgono fra un quarto e un terzo dell’acqua prima di farti fare un bagno. In Italia, male che vada, un bicchiere da cucina.
Ci sono poi due mostri creati dalla sproporzionata patrimonializzazione delle famiglie italiane. Il primo è la parallela sotto-capitalizzazione di larga parte delle imprese nazionali, che le mantiene piccole e poco produttive, con ricadute nefaste sulla produttività e sul tasso di crescita complessivo. Ma dopotutto, perché mettere dei soldi in un’azienda – con tutti i rischi che questo comporta, e con la considerevole tassazione sui profitti che è in vigore – quando si possono tenere sotto il tranquillizzante tetto familiare al riparo (o quasi) da qualsiasi tassazione?
Il secondo mostro è il debito pubblico. Quello italiano è un classico caso di ricchezza privata e povertà pubblica. La famosa frase sul fatto che è vero che abbiamo un debito pubblico enorme, ma abbiamo anche un grande patrimonio privato è un imbroglio retorico. La mancanza di una tassazione appropriata del patrimonio, oltre ad aver prodotto un sistema impositivo fortemente distorsivo a favore delle rendite e a svantaggio di lavoro e impresa, ha costretto i governi al ricorso all’indebitamento anche quando non sarebbe stato efficiente farlo. Sarà pure vero che quel debito se lo comprano in massima parte i cittadini italiani. Ma lo Stato finisce per pagare un interesse che va ad alimentare ulteriormente quei patrimoni. Insomma, da quei patrimoni lo Stato ci guadagna poco (in tasse) e ci spende molto (in interessi).
Affrontare il problema della vasca da bagno italiana e tornare a farla funzionare come dovrebbe (con un rubinetto che immetta sufficiente acqua nuova e un tubo di scarico che espella quella ormai sudicia) è quindi una necessità ineluttabile se si ha a cuore l’avvenire del paese. Farlo in modo equo invece è un dovere dei nuovi riformisti. Anche perché se non viene fatto, ad un certo punto sarà il sistema stesso ad implodere, ma in modo disordinato e profondamente ingiusto. Se, davanti a redditi da lavoro e da impresa sempre più modesti, il valore degli asset dovesse crollare, è vero che in termini assoluti verrebbero colpiti di più i ricchi, ma il vero danno lo pagherebbero quelli che già partivano con la vasca semi-vuota e che si troverebbero da un giorno all’altro a fare il bagno in un dito d’acqua.
La seconda osservazione riguarda la contrattazione salariale. Tutti concordano che quella attualmente in vigore ha funzionato molto bene nel legare i salari all’inflazione, ma molto male nel legarli alla produttività. Si tira sovente in ballo il fatto che il cosiddetto secondo pilatro della contrattazione – quella decentralizzato – non sia mai effettivamente partito. Il problema però è l’utilizzo che si fa di questo secondo pilastro. Legare banalmente gli aumenti dei salari alla produttività rischia di essere un meccanismo perverso, perché se – come succede in Italia – la produttività è ferma, lo sono anche i salari reali. La produttività non è una manna che piove dal cielo. È per larga parte il prodotto di precise azioni di diversi soggetti: investimenti, innovazioni di prodotto e di processo, capitale fisico e intangibile, qualità del management, qualità dei lavoratori, etc. Per creare un meccanismo virtuoso l’aumento della produttività va programmata in modo credibile, e a questo obiettivo vanno ancorati gli aumenti delle retribuzioni. Un meccanismo di questo tipo crea un pavimento al sistema. Se gli obiettivi vengono rispettati, aumentano i salari e la produttività. Se invece vengono mancati per responsabilità di chi doveva perseguirli (e non per cause esterne), è l’impresa che ne deve pagare le conseguenze. La riforma della contrattazione è uno degli ingredienti chiave non solo per ripensare il sistema distributivo primario (andando a svuotare un po’ l’ospedale da campo del mercato che è il welfare state), ma anche le politiche industriali che di questa nuova forma di contrattazione dovrebbero essere il naturale complemento. Oggi troppo spesso le nostre politiche industriali sono il reddito di cittadinanza delle imprese: servono a non farle morire, ma non servono a dare loro una speranza di vita migliore.
La terza osservazione è che, come dicevo prima, in Italia negli ultimi trent’anni abbiamo riformato praticamente tutto, ma questo sembra non essere servito a molto. Certo non tutte le riforme erano giuste, e non tutte le riforme giuste sono state fatte nel migliore dei modi. Ma il vero motivo di questo insuccesso è che il cuore del problema stava altrove, nel modo in cui il capitalismo si è progressivamente strutturato nel nostro paese. Questo è accaduto un po’ per politiche pubbliche non sempre adeguate, e un po’ perché incentivato da un misto di allergia alle regole e tollerata evasione fiscale che sono una tara storica del nostro sistema produttivo (qualcosa che non ha nulla a che vedere con il neoliberismo, e che anzi ne è la negazione).
In Italia abbiamo ormai poche grandi imprese private, quasi tutte operanti in settori maturi, a volte protetti, spesso a basso valore aggiunto. Abbiamo qualche centinaio di medie imprese che sono una vera eccellenza nazionale, ma sono troppo poche per caricarsi sulle spalle un paese di 60 milioni di abitanti e fargli conservare il livello di benessere che gli compete. E poi abbiamo una valanga di microimprese familiari che appena inizia il brutto tempo vanno in affanno perché non fanno innovazione sistematica, e – per le ragioni che dicevo sopra – non hanno capitali ma soltanto debiti. La governance delle imprese italiane è spesso vecchia e scadente e questo influisce su tutto il resto: innovazione, competitività, produttività, raccolta di capitali, salari pagati, etc. Le riforme della corporate governance fatte nell’ultimo trentennio – dalla cosiddetta legge Draghi del 1998 in poi – sono state timide, a volte inapplicate, e comunque incapaci di invertire la rotta. E proprio questo deficit riformista è diventato un problema nel momento in cui altre riforme invece sono state portate a compimento, creando una evidente incompatibilità istituzionale, con risultati deleteri e pressioni politiche e sociali affinché si tornasse indietro.
Il caso del mercato del lavoro è emblematico. Fra le tante cose, il Jobs Act viene criticato per aver eliminato completamente il reintegro del lavoratore nel caso di licenziamento di natura economica, sostituendolo con un indennizzo monetario, non prevedendo alcun meccanismo che consenta di accertare se la motivazione economica è causata da fattori esterni – al di fuori del controllo dell’impresa – o da fattori interni, dovuti a scelte sbagliate della proprietà o del management. Stabilire che a prescindere dalla natura della motivazione economica, la strada possibile è il licenziamento significa scaricare tutto il rischio di impresa sul lavoratore. L’articolo 18 non era lo strumento migliore per dirimere la questione, ma ora ci siamo trovati senza nulla che ci consenta di farlo. Non si tratta di un problema di natura morale o politica, ma anche funzionale. Da un lato, il management dell’impresa, potendo trasferire interamente il rischio sul lavoratore, non ha alcun incentivo a fare scelte virtuose. Dall’altro il lavoratore, non avendo più alcuna certezza sul suo posto di lavoro, tende a ridurre l’investimento specifico in formazione e apprendimento. L’equilibrio che si crea è “cattivo”, per l’impresa, per il lavoratore e per il sistema economico nel suo complesso. Non è un caso che tutte le economie avanzate posseggono un sistema che consente di discriminare fra licenziamenti di natura economica dovuti a fattori esterni, che possono richiedere una ristrutturazione produttiva, e quelli dovuti a scelte sbagliate del management, che invece dovrebbero determinare un cambio della guida operativa dell’azienda se non addirittura della proprietà. Nelle cosiddette economie liberali di mercato, tipiche del mondo anglosassone, questo compito è svolto più o meno diligentemente dai mercati finanziari e dalle borse valori. Nelle economie a capitalismo coordinato, tipiche invece dell’Europa continentale, alle relazioni competitive e alle valutazioni dei mercati si sono sostituite soluzioni diverse. In Germania, ad esempio, i lavoratori hanno delle loro rappresentanze negli organi decisionali delle imprese, e questa originale forma di corporate governance permette di discriminare fra fattori esterni e fattori interni. In Italia non c’è più nulla.
Poco tempo dopo l’entrata in vigore del Jobs Act destò un certo scalpore la notizia che la Ducati e la Lamborghini, entrambe in mano al gruppo Audi-Volkswagen, avevano concluso un accordo con i sindacati che prevedeva, nel caso di licenziamenti individuali, che i lavoratori avessero il diritto ad attivare un confronto sindacale preventivo, con la presenza della propria organizzazione sindacale e della RSU, volto ad identificare tutte le soluzioni alternative al licenziamento. Dopo anni di editoriali che spiegavano che gli investitori stranieri non venivano in Italia perché c’erano l’articolo 18 e i sindacati, una volta sbarcati nel Bel Paese proprio gli investitori stranieri si erano subito messi d’accordo con i sindacati per rimettere – nei fatti – una sorta di articolo 18. Non lo fecero – come diceva bene Adam Smith – per generosità, ma per interesse: era un modo per provare a uscire dall’equilibrio “cattivo” e spostarsi su un equilibrio “buono”. Siccome però non sempre è il mercato da solo a fare queste operazioni, ci devono pensare le istituzioni. Riformare il capitalismo italiano è la chiave per uscire dalla stagnazione e ricostruire quel contratto sociale che è saltato. Farlo è compito del Partito Democratico.