Tutti concordiamo sul fatto che la politica italiana ha un problema di credibilità. Tutti ripetiamo che il sistema non funziona, per via dell’instabilità dei governi e della frammentazione dei partiti. Dopodiché, continuiamo a indicare come soluzione, nel 2023, le stesse riforme istituzionali ed elettorali del 1993 e di tutti i programmi presentati da allora in poi, a tutte le elezioni degli ultimi trent’anni. Trent’anni nel corso dei quali entrambi i problemi – instabilità dei governi e moltiplicazione dei partiti – non hanno fatto altro che aggravarsi.
Quale medico, vedendo il paziente peggiorare regolarmente per trent’anni di fila, continuerebbe a prescrivere la stessa terapia? Quale «credibilità» può ancora mantenere, dopo trent’anni, un simile dottore? Protestare che la terapia non sarebbe stata seguita fino in fondo, abbastanza a lungo o nel modo corretto, ripetere che le varie leggi maggioritarie adottate non erano abbastanza maggioritarie, che le diverse forme di presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato forte ipotizzate e tentate non erano abbastanza forti o invece lo erano troppo, obiettivamente, poteva essere una reazione accettabile dopo tre, cinque, sette anni. Non dopo trenta. Una forza politica, in democrazia, è responsabile anche dell’effettiva praticabilità delle proprie teorie. Sostenere che il piano è perfetto, nonostante in trent’anni nessuno sia mai riuscito a realizzarlo, è il suicidio della politica. Significa fare come certi marxisti degli anni ottanta, secondo i quali il comunismo era un’ideologia perfetta, era stata solo applicata male. Una teoria che sia stata sempre applicata male, evidentemente, è una cattiva teoria.
Fino a quando non si vorrà guardare in faccia la realtà e si continueranno a ripetere come un mantra le stesse frasi fatte dei primi anni novanta sulla governabilità e il bipolarismo – salvo occasionalmente sostenere l’esatto contrario, perché siamo tutti maggioritaristi quando pensiamo di vincere e proporzionalisti quando temiamo di perdere – non usciremo dal circolo vizioso. Aggravando ulteriormente quel problema di credibilità da cui eravamo partiti. Non si tratta solo dell’interminabile dibattito su riforme istituzionali (presidenzialismo, federalismo) e leggi elettorali (maggioritario a turno unico, a doppio turno, proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione o alla lista). Si tratta di tutti i principali temi oggetto del dibattito pubblico, a proposito dei quali forniamo le stesse diagnosi e proponiamo le stesse terapie, incuranti del passare del tempo come della mancanza di risultati.
La dimostrazione più lampante di questa nevrosi non è data però dall’interminabile elenco delle discussioni del secolo scorso ancora e sempre attuali, come il dibattito attorno al ponte sullo stretto di Messina. La migliore conferma della regola è data proprio dalle pochissime cose che a un certo punto, dopo dibattiti decennali, si sono effettivamente cambiate, in un senso o nell’altro. Ebbene, che si tratti dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori o del titolo V della Costituzione, dell’abolizione delle province o di quella delle preferenze, è evidente come il compimento della riforma non abbia segnato altro che una brevissima tregua nel conflitto, destinato a ripartire un minuto dopo in forme ancora più nevrotiche. Nessuna pagina è mai definitivamente voltata, nessun progresso è mai generalmente considerato acquisito una volta per tutte, salvo pochissimi casi, per lo più riguardanti i diritti civili (forse perché lì andiamo talmente lenti, rispetto al resto del mondo, che tornare pure indietro appare assurdo anche ai partiti più reazionari – almeno mi auguro, sperando di non dovermi presto ricredere anche su questo).
Persino le parole, le categorie, i riferimenti sono sempre gli stessi. Ogni piccolo o grande caso di corruzione riapre la stessa anacronistica discussione sulla «questione morale», a partire da un’intervista di Enrico Berlinguer risalente al 1981 che non ha semplicemente niente a che vedere con l’Italia di oggi. Non foss’altro perché per Berlinguer la causa prima del problema era la conventio ad excludendum ai danni del Partito comunista, conseguenza della divisione del mondo in blocchi, tra Patto Atlantico e Patto di Varsavia. Non parliamo poi della continua rievocazione del partito della fermezza e delle discussioni degli anni di piombo – altro tema praticamente onnipresente nel nostro dibattito pubblico – di fronte a un’Italia che, per fortuna, ha ben poco a che vedere con quella di allora.
Non cambiando mai niente, né le cose, né le parole, è pressoché inevitabile che la politica si riduca a una sorta di gioco della sedia, in cui presto o tardi gli stessi dirigenti, fermo restando il copione, si ritrovano a recitare tutte le parti in commedia, secondo la convenienza del momento. Ma nulla è peggio di una classe dirigente giustizialista con gli avversari e garantista con se stessa, meridionalista nelle regioni del sud e nordista in quelle del nord, centralista quando governa il centro e autonomista quando governa comuni e regioni, reazionaria a Palazzo Chigi e rivoluzionaria all’opposizione.
Questa dinamica perversa ha offuscato qualunque obiettiva valutazione di merito e reso conseguentemente sterile qualsiasi discussione. Tanto che gli stessi dirigenti hanno potuto entusiasmarsi per il governo di Mario Monti e poi contestare da sinistra il governo di Mario Draghi (perlopiù ex post, peraltro); spellarsi le mani nel 2011 per un ex elettore di Forza Italia impegnato ad applicare la più classica delle politiche di austerità e poi storcere il naso nel 2021 davanti a un presidente del Consiglio che faceva l’esatto opposto. La verità è che in questi anni il Partito democratico ha partecipato a tutti i governi e a tutte le maggioranze possibili, sposando linee politiche diametralmente opposte. Avrebbe potuto almeno risparmiarsi le continue discussioni sulla propria identità.
Enrico Letta e tutti i principali dirigenti del Pd, dopo la sconfitta elettorale del 2022, hanno dichiarato solennemente che non parteciperanno mai più ad altre maggioranze o ad altri governi che non siano espressione diretta di una loro inequivoca vittoria elettorale. Sembra dunque di capire che ritengano di avere sbagliato fino a oggi a comportarsi altrimenti, solo che fino a ieri quelle scelte le hanno orgogliosamente rivendicate come sacrifici compiuti nel supremo interesse del paese: oggi dunque non si sacrificherebbero più? Attaccherebbero il telefono in faccia al capo dello Stato? Sono giunti alla conclusione che sia stato un errore sostenere il governo Draghi, e prima il governo Conte, e prima ancora i governi Gentiloni, Renzi, Letta (tutti retti da un accordo tra il centrosinistra e un pezzo del centrodestra), e prima ancora il governo Monti, o alcuni di questi sì e altri no? E per quali ragioni?
Non sono domande provocatorie. Se infatti si avesse il coraggio di dire esplicitamente quali governi non andavano sostenuti e perché, potrebbe nascerne un dibattito chiaro, i dirigenti si dividerebbero su qualcosa di comprensibile e magari se ne potrebbe persino ricavare qualche utile indicazione per il futuro. Ma di fronte a un gruppo dirigente contiano con Conte, draghiano con Draghi e marxista-leninista all’opposizione, sempre all’unanimità, è difficile resistere all’impressione che il Pd sia vittima di quella stessa crisi del sistema politico di cui avrebbe dovuto essere la cura.
In fondo, il Pd è l’ultima organizzazione di qualche consistenza ad avere ancora la parola «partito» nel nome e rappresenta agli occhi di molti, ben al di là dei suoi meriti e dei suoi demeriti, la politica tout court. Non può sorprendere dunque che abbia anch’esso un gigantesco problema di credibilità, instabilità delle leadership e frammentazione interna. D’altra parte, è assurdo insistere nella stessa terapia e pretendere diversi risultati. È tutto quell’insieme di analisi, strumenti e strategie affermatosi all’inizio degli anni novanta, e che è ancora oggi il pensiero dominante delle élite politiche, burocratiche e intellettuali del nostro paese, che andrebbe rimesso in discussione. Se si vuole davvero interrompere questo stucchevole gioco della sedia, prima o poi, bisognerà provare a cambiare musica.