La visita di alcuni parlamentari del Partito Democratico ad Alfredo Cospito, detenuto al 41-bis in sciopero della fame contro il regime carcerario speciale che per alcuni – sottoscritto compreso – rappresenta una forma di detenzione disumana e degradante, ha scatenato reazioni scomposte, creando un caso politico in cui esponenti della destra di governo hanno mostrato, se poteva servire, come il garantismo venga spesso declinato secondo convenienza.
Ma quella visita non è un gesto di cui pentirsi o da nascondere con malcelato imbarazzo, è invece un gesto che deve essere rivendicato per la sua natura umanitaria e politica. Quella visita, in un momento così delicato, è stato – consapevole o meno – un gesto di rottura rispetto a una morale giustizialista che si è consolidata trasversalmente nello scenario politico e che con il governo di destra rischia di insediarsi stabilmente nella cultura dell’intero arco costituzionale.
Veniamo da quasi tre decenni in cui populismo penale e giustizialismo, intesi come una visione riformatrice della società e della politica affidati alla giustizia penale attraverso aumenti di pena, introduzione di nuovi reati, visione carcero-centrica hanno mitridatizzato l’opinione pubblica e condizionato l’azione politica. Non c’è stata riforma della giustizia che non si sia schiantata contro il terrore di passare per buonisti o, peggio, per “impunitisti”, categoria politica da pelle d’oca, inventata per spiegare che certamente siamo favorevoli a tutelare i diritti e le garanzie – scritte in Costituzione, non da qualche consiglio d’amministrazione – ma senza esagerare.
La stagione penal-populista ha prodotto un sovraffollamento carcerario drammatico – nel 2022 si sono registrati 84 suicidi – e un sostanziale stravolgimento della funzione della pena e dell’articolo 27 della Costituzione, anche nell’opinione comune, a causa della tendenza irresistibile a usare l’ordinamento penale come strumento regolatore dei conflitti politici e sociali. La giustizia è un campo di battaglia su cui si sono scontrate le rappresentazioni morali della politica: buoni contro cattivi, onesti contro corrotti, filo-mafiosi contro anti-mafiosi. Ma con le carceri cronicamente sovraffollate, un sistema giudiziario al collasso, processi che durano lustri, non ce lo possiamo più permettere.
Per questo è interessante capire come definirà la propria identità sulla giustizia il Partito Democratico in questo congresso. C’è sempre stata una forte tensione verso una visione moralizzatrice della giustizia penale, e se questo è un passaggio decisivo per darsi una nuova identità, quale sarà la posizione su temi difficili come l’ergastolo ostativo, le politiche di depenalizzazione, le misure alternative al carcere che lo rendano una pena destinata solo ai reati più gravi? Si riuscirà a riportare a sinistra un dibattito serio sul grande rimosso delle politiche carcerarie?
Giustizia sociale, etica pubblica, lotta alla corruzione, lotta alla mafia sono valori indiscutibili, che però non possono sempre sovrastare garanzie e diritti. Parlare di diritti umani e di nuovi diritti, dimenticandosi di come vengono violati quelli antichi in carceri sovraffollate – e le ragioni per cui sono sovraffollate – è una contraddizione che va risolta.
Con grande spirito di servizio, dunque, mi sono letto le mozioni congressuali. Si scorge ancora il desiderio di rivendicare un supporto all’azione della magistratura (ma si dovrà capire, un giorno, che è un ruolo che non compete a un partito politico, tenuto solo a rispettarne autonomia e indipendenza) ma affiora qualche germe di speranza.
Frammenti di idee, forse un leggero slittamento culturale: contrastare la lentezza dei processi e l’abuso delle misure cautelari, riformare la disciplina delle intercettazioni, la promozione di una cultura di legalità e rispetto delle leggi (De Micheli); estendere il ricorso alle misure alternative al carcere, che deve essere considerata un’extrema ratio, dignitose condizioni di detenzione ed efficaci percorsi di reinserimento, ripartire dalla riforma penitenziaria, prevedendo più strumenti di giustizia riparativa e nuovi metodi di esecuzione della pena (Schlein); la presa d’atto che per la sicurezza è insufficiente e inefficace un approccio securitario e panpenalistico (Bonaccini). Propositi che sembrano segnare una distanza col passato prossimo ed escludere una gara per contendersi il campo giustizialista. Si tratterà di vedere come saranno applicate nella contingenza politica, come verranno riempiti gli spazi e i vuoti semantici.
Come ha ricordato Massimo Adinolfi, il futuro abita nei possibili adiacenti. Nessuno pretende che il Partito Democratico sulla giustizia abbia le posizioni dei radicali (magari che riveda le sue posizioni su temi come l’ergastolo ostativo) ma che esprima una visione alternativa e una nuova razionalità rispetto a quella dei partiti di governo e del Movimento 5 Stelle (praticamente dell’intero arco costituzionale), quello evidentemente sì. Dichiarare chiusa l’era del populismo penale, abbandonare una concezione sostanzialista della giustizia: darsi una nuova identità è un cambio radicale di attitudini, ma anche un ritorno alle origini.
Forse, come sostiene Luigi Manconi, la sinistra non è mai stata garantista, avvinta a una giustizia sostanziale che impedisce di condividere fino in fondo garanzie e diritti riconosciuti a indagati e imputati, ma si poteva permettere posizioni come quelle tenute dal Pds – nelle persone di Ugo Pecchioli e Massimo Brutti – che nel luglio del 1992, in una conferenza stampa sul decreto antimafia Scotti-Martelli che tra le sue misure estendeva il regime eccezionale del 41-bis, parlavano di “stravolgimento dei principi fondamentali della stessa Costituzione”. Poi ci saranno via D’Amelio, Mani Pulite, e la storia cambierà.
Il fatto che il garantismo in politica sia stato sconfitto, e sopravviva in alcune sacche di resistenza culturale, sparuti settori della politica e della società, non significa che sia finito. La politica sulla giustizia si è scontrata in questi anni con il pragmatismo dell’opinione pubblica, di cui la politica si è rassegnata a farsi portavoce e si è confusa la sicurezza con la durezza delle politiche giudiziarie, dimenticando quel piccolo particolare per cui i partiti, lo Stato hanno la funzione di mediare, sopire, non assecondare le pulsioni.
Chiudere la stagione delle emergenze, per evitare, come scrive Francesco Cundari, la coazione a ripetere di parole d’ordine e discussioni di epoche passate, chiudere la stagione giustizialista, perché una nuova identità politica sulla giustizia è funzionale anche a riaffermare la funzione della politica.