I lavoratori iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo (FPLS) sono circa 900.000.
Di questi, circa 700.000 sono assicurati per una media annua di contribuzione inferiore a 30 giorni.
Il Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo è stato istituito presso l’INPS con lo scioglimento dell’ENPALS previsto dalla Legge Fornero; un’azione normativa che mentre arricchiva l’INPS di un “tesoretto” portatogli in dote dall’ENPALS di circa 5 miliardi di euro (utile stimato dal bilancio consolidato INPS 2019), non ha prodotto alcun significativo miglioramento per i lavoratori dello spettacolo. Mentre restava inalterato il quadro normativo di riferimento dato dalle norme del Decreto Legislativo C.P.S. n. 708/1947 e poi dal Decreto Legislativo 182/1997, i lavoratori dello spettacolo venivano coinvolti in tutti gli svantaggi di una normativa che ne ha previsto la loro confluenza in un contenitore generale senza che fossero riconosciute le specificità del loro contesto lavorativo.
Una mancanza di attenzione e un ritardo di azione politica e legislativa le cui conseguenze si sono manifestate chiaramente nel 2020, quando la pandemia da COVID-19 ha fermato l’intero settore: i lavoratori, pur avendo una cassa previdenziale molto ricca, non avevano strumenti di protezione sociale sufficienti, adeguati e stabili. La mancanza di strumenti di previdenza e protezione sociale specifici per un sistema in cui la discontinuità dei tempi di lavoro costituisce la norma, ha recato, tra l’altro, l’impossibilità di accedere a misure di sostegno come, ad esempio, la cassa integrazione in deroga, che erano state previste per i lavoratori degli altri settori di attività ed ha prodotto le indennità e i bonus COVID: misure di sostegno di entità molto contenute e di pura emergenza che peraltro, proprio per la mancanza di una chiara disciplina di riferimento, hanno spesso generato ulteriori disparità di trattamento.
In quel momento complicatissimo iniziò un lungo lavoro di confronto ed elaborazione tra attori, musicisti, tecnici, operatori e professionisti del settore, associazioni, tecnici del diritto, istanze politiche, con l’obiettivo condiviso di una profonda innovazione del sistema di welfare dello spettacolo. Un lavoro che naturalmente ha coinvolto il Parlamento e il Governo e che dopo un percorso di quasi due anni portò alla istituzione della indennità di discontinuità nell’ambito della Legge di delega al Governo per il riordino dello spettacolo (Legge 15 luglio 2022, n. 106).
Il testo della norma contenuta nella legge di delega è chiarissimo: «Il Governo è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, […], un decreto legislativo per il riordino e la revisione degli ammortizzatori e delle indennità e per l’introduzione di un’indennità di discontinuità, quale indennità strutturale e permanente, in favore dei lavoratori di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 182, nonché dei lavoratori discontinui del settore dello spettacolo di cui alla lettera b) del predetto comma 1, individuati con decreto adottato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della cultura, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.» (Comma 6, Art. 2, L. 1016/2022);
La lettera della legge non può essere equivocata: il decreto legislativo del Governo per la sua attuazione doveva contenere il riordino e la revisione degli strumenti di tutela in virtù della loro sostituzione con l’indennità di discontinuità, come misura di welfare strutturale per i lavoratori dello spettacolo e coinvolgendo principalmente, per ovvie ragioni di competenza, i compiti e le prerogative del Ministero del Lavoro.
Stravolgendo l’indirizzo del Parlamento, il Governo Meloni ha prodotto un decreto di attuazione frutto di un’interpretazione tutta propria (e, contrariamente alle dichiarazioni trionfali di diversi esponenti del Governo, mai condivisa con i lavoratori e le imprese): un decreto di attuazione su proposta del Ministro della Cultura di concerto con quello del Lavoro, l’esatto contrario di quanto stabilito nella legge delega, che ha cambiato intimamente la natura e la struttura dell’indennità di discontinuità, che da prestazione previdenziale e, conseguentemente, anche di sostegno del reddito, è stata trasformata nell’ennesima banale, inutile e insufficiente – anche nell’entità massima prevista – misura di sostegno economico, sottoposta a stanziamenti annuali. Uno stravolgimento confermato dalle previsioni del decreto di attuazione sulle successive modalità di finanziamento e sui criteri stabiliti per l’accesso all’indennità e per la sua erogazione.
L’obiettivo della legge approvata da Parlamento è, infatti, la creazione di un sistema di welfare migliorativo delle tutele, del quale l’indennità di discontinuità costituisce il perno della protezione previdenziale e sociale dei lavoratori dello spettacolo: la miopia e la censurabilità dell’azione del Governo è nell’avere ridotto la portata di un intervento normativo di rilevanza storica per il nostro paese ad una disposizione di carattere meramente economico, culturalmente retrograda, che oltre a continuare a tenere l’Italia ben distante dal quadro europeo in materia di riconoscimento del valore sociale, civile ed economico del lavoro artistico e creativo, continua a negare, di fatto e di diritto, la funzione sociale e civile dell’arte, della cultura e della creatività. Non si realizza alcun sostegno delle professioni dello spettacolo e del loro sviluppo e ampliamento, ma si configura una indennità di mini-disoccupazione che disattende tutte le aspettative e le finalità contenute nelle proposte di legge discusse in Parlamento nella scorsa Legislatura e il dibattito pubblico sull’atteso Statuto del lavoro culturale e creativo.
Alla competente Ministra del Lavoro vorremmo chiedere quale sia il suo punto di vista, considerato che il decreto è stato emanato con il suo concerto: ad esempio, come si giustifica l’aumento della contribuzione per le imprese e i lavoratori dello spettacolo determinato dall’istituzione della discontinuità? La domanda è tutt’altro che peregrina, perché il decreto di attuazione (DLGS 175/2023) prevede all’articolo 7 che la discontinuità si finanzi con il contributo addizionale dell’1% delle imprese e quello di solidarietà dello 0,50% dei lavoratori, facendo confluire la contribuzione nel fondo per il finanziamento degli ammortizzatori sociali già esistente (cosa giustissima in termini di contribuzione previdenziale e nell’ottica del sistema di previdenza a compensazione, così come è strutturato nell’INPS); ma poi l’articolo 9 dello stesso decreto, stabilisce limiti di spesa annuali rispetto ai quali l’INPS provvede al monitoraggio e «qualora dal predetto monitoraggio emerga che è stato raggiunto anche in via prospettica il limite di spesa, l’INPS non prende in considerazione ulteriori domande».
È come dire che, se ad un certo punto l’INPS esaurisse i fondi destinati alla NASpI, potrebbe smettere di erogare i trattamenti di disoccupazione agli aventi diritto per mancanza di risorse; o come se la Disoccupazione Agricola venisse assegnata con un clic day ad esaurimento dei fondi, sospendendo le erogazioni per tutti coloro che giungessero un minuto più tardi all’appuntamento, con buona pace di chi ha comunque versato i contributi per finanziare le prestazioni.
Oltre che alla discussione sul merito normativo, previdenziale e tecnico, pensiamo che continui ad essere in campo una questione di sostanza che attiene alla considerazione ancillare e spesso caricaturale del mondo della cultura e della produzione creativa e artistica che serpeggia nei contenuti del decreto attuativo prodotto dal Governo in carica: un Governo che decide, ancora una volta, di distribuire prebende invece di riconoscere diritti e tutele, comprimendo così le potenzialità sociali ed economiche del sistema culturale per conservarne la precarietà e comprimerne la libertà e l’indipendenza.