Nei giorni del Festival del Cinema di Venezia, dove sono capitato per scrivere una guida dei maggiori eventi italiani commissionatami da un sito che si occupa di turismo culturale, ho reincontrato vecchi amici italiani che si occupano di cinema a vario titolo. Nell’impossibilità di ripartire agli orari previsti, a causa di una tempesta tropicale che qui chiamano “bomba d’acqua”, ho approfittato di alcune ore supplementari al Lido per osservare e raccogliere ulteriori sensazioni sullo stato dell’industria cinematografica italiana che mi sta molto a cuore sin dai tempi in cui studiavo, a Roma e Firenze, l’arte di questo sempre straordinario Paese.
Questi schizzi, che sono anche letterali a causa del maltempo che mi ha totalmente infradiciato, vogliono essere una fugace riflessione, una piccola istantanea scattata da un occhio esterno come il mio, che ha solo studiato Teoria della Politica Culturale senza mai provare ad applicarsi come produttore, regista o tantomeno autore.
P.S.: al momento del mio ritorno a casa, l’8 settembre, scopro che il Ministro della Cultura si è dimesso e alcuni artisti italiani premiati per i loro film hanno manifestato contrarietà per le politiche culturali del loro governo. Decido ugualmente di pubblicare queste antecedenti riflessioni, nonostante gli eventi probabilmente stiano già cambiando lo scenario. Da ciò che ho potuto ascoltare, il sistema italiano si appresta a promulgare una legge sul cinema che ha pochi, pochissimi contraenti e, per contro, molti insoddisfatti e penalizzati. Questa norma, oltre a introdurre tagli economici sui budget e sul meccanismo fiscale di tax credit che ha, fino ad ora, permesso la prosperità del settore, sembra circoscrivere questi finanziamenti ad un ristretto gruppo di beneficiari.
Negli Stati Uniti, quando si analizza l’introduzione di un provvedimento di questa portata, si cerca di capire a chi giova e a chi nuoce. Da lì si comprende sia l’indirizzo politico che l’attività di lobby che c’è stata. Non solo: comparando gli stili espositivi, si può risalire addirittura alle menti che hanno immaginato la norma e alle mani che l’hanno scritta. In questo specifico caso, l’occhio esterno, estraneo e, ad oggi, estero che mi ritrovo, mi permette di ipotizzare che il ticket di menti e mani vada ricercato proprio tra coloro che usufruiranno della quasi totalità della dotazione economica che questa legge metterà a disposizione, cioè i grandi gruppi produttivi. In questo cambio di sistema, associazioni come Anica, Apa e Ape finiranno per gestire la pressoché totale economia del settore.
Per cercare di comprendere il motivo di questo sbilanciamento, in controtendenza rispetto alle politiche culturali pluraliste delle grandi democrazie occidentali, ho dovuto farmi raccontare la situazione delle stagioni precedenti, dove l’avvento delle enormi piattaforme globali aveva ridotto considerevolmente l’importanza e la portata economica di questi gruppi imprenditoriali italiani e delle loro storiche associazioni. Si capisce allora che il patto siglato tra il legislatore e questi soggetti in cerca di rimonta, resosi necessario per evitare ripercussioni per loro esistenziali, non poteva che sostanziarsi in un provvedimento così drastico e spietato. Gli altri soggetti che fanno parte del settore, gli indipendenti, i medi e piccoli produttori, saranno coloro ai quali la legge taglierà letteralmente le gambe.
In questo scenario, fosco per molti e falsamente florido per pochi, mi sono chiesto quali fossero i “dividendi” del legislatore che ha acconsentito a farsi scrivere una norma del genere. Dopo qualche chiacchiera con amici giornalisti ho appreso che il ministero italiano della cultura, al quale si riferisce inevitabilmente il settore del cinema, ha manifestato da tempo la volontà di dettare una “linea editoriale” che incentivi elementi identitari riguardanti la storia nazionale italiana e i personaggi che l’hanno fatta, proiettando il vivere contemporaneo all’interno di una visione conservatrice quale quella dettata dal governo.
Da noi, negli Stati Uniti, questo tipo di manipolazione dei contenuti risale al tempo dei film di genere western o di guerra, ma negli ultimi venti o trent’anni l’industria del cinema si è affrancata da certe linee editoriali imposte dall’establishment ed è tornata al pluralismo culturale democratico, unico vero terreno di prosperità industriale. Dal punto di vista strettamente tematico, per i cineasti italiani non sarà difficile eludere questo tentativo di apologia identitaria: da studioso dell’arte non posso non considerare come la grande arte pittorica italiana rinascimentale, l’equivalente del cinema di oggi, trovò in sé stessa i modi e i tempi per eludere i temi commissionati dal potere, introducendo allegorie e simboli nascosti proprio tra le pieghe della censura e del controllo delle corti e della Chiesa. Immagino che il cinema italiano di frontiera che scamperà al tradimento culturale dei grandi produttori, memore anche della lezione impartita dai loro padri che hanno saputo scrivere l’eccellente cinema che conosciamo perfino sotto l’occupazione nazista, riesca a trovare le strade giuste per restare libero.
Forse la mia analisi è un po’ naïf o addirittura massimalista, ma credo fermamente che anche in Italia il tentativo di piegare il cinema a contenuti di propaganda sia destinato a rientrare, poiché le condizioni di asservimento culturale portano sempre a una lontananza e a una impossibilità di confronto con il mercato internazionale, mercato del quale l’Italia ha bisogno per riposizionarsi al più presto e non far dimenticare definitivamente la sua gloriosa storia culturale e cinematografica. Sono convinto che chi adesso cerca solo profitto, dovrà tornare sui propri passi per non perdere credibilità artistica.
Ma c’è dell’altro, oltre al tema editoriale. Sicuramente il quadro economico generale impone all’Italia un’austerità diffusa che va generalmente a colpire proprio il tipo di settori come l’entertainment o la cultura, ma credo che questo provvedimento nasconda ancora qualcosa di più sinistro e di più simile ad uno stress test per i lavoratori del settore. La sensazione è avvalorata da alcune riflessioni fatte riguardo al comportamento di quei soggetti che si pongono come intermediari tra i lavoratori del cinema e questi altri due soggetti che ho nominato (legislatore e produttori), ovvero i sindacati.
Negli Stati Uniti i sindacati sono parte integrante e consapevole del sistema, capaci di condizionare – talvolta anche troppo – ogni passaggio produttivo della grande industria cinematografica americana. Qui, invece, mi raccontano di una situazione differente che al termine dell’analisi mi fa inscrivere proprio i sindacati, o almeno alcuni di loro, tra i contraenti di questo presunto patto che ho menzionato all’inizio dell’articolo. Prestando l’orecchio ai racconti dei molti lavoratori presenti a Venezia, ho infatti appreso che la corsa sfrenata verso la firma di un contratto unico che tenga insieme tutti le professioni del cinema, che in questo momento sono debilitate e spinte ad abbassare le pretese, abbia più la parvenza di un recinto da chiudere e di cui un solo mandriano possieda le chiavi. Perdonate ancora una volta la metafora western: il mio personale immaginario si è nutrito negli anni di queste dinamiche di frontiera, senz’altro rudi e così poco “europee”, sebbene spesso più veritiere di tanta retorica.
Questo elemento del recinto e del suo mandriano che ne detiene le chiavi, ha trovato conferma nel momento in cui sono stato messo a parte anche del tentativo di istituire per i lavoratori un impianto di welfare temporaneo. La combinazione di queste due iniziative ha un chiaro obiettivo. Analizzando il momento, ritengo che in previsione di un evidente calo dei livelli occupazionali, questo strumento di salvaguardia tarato per sostenere temporaneamente il lavoratore – poiché mi dicono che si calcola sul periodo strettamente precedente all’esubero–, sia una sorta di buonuscita che accompagni i professionisti verso la loro definitiva estromissione.
Ho chiesto come mai non ci si sia concentrati sul mantenimento dei livelli occupazionali collettivi, dal momento che è chiaro come le politiche governative e soprattutto le esigenze imprenditoriali siano quelle di tagliare l’occupazione. Beh, la risposta è arrivata prima ancora che finissi la domanda: è il mandriano stesso che spinge per questa soluzione, per il motivo che è infatti lui il terzo contraente di questo patto che aleggia sopra il cinema italiano.
Mi sono permesso di fare queste osservazioni solo in omaggio e deferenza all’amicizia antica e fraterna che mi lega ad alcuni dei lavoratori storici di questo settore: autori, attori e artisti delle luci, del costume e della scenografia, maestri dei cui resoconti e impressioni mi fido ciecamente. Sono convinto che questi incredibili e appassionati professionisti sapranno presto trovare la soluzione, sia politica che culturale, al tradimento ricevuto dai governanti, dai produttori e dai sindacati, mettendo fine all’oppressione che vivono e che hanno saputo manifestarmi.
traduzione di Francesca Reddini