Quello delle orchestre rappresenta un segmento molto articolato e diversificato del panorama culturale del nostro Paese, a cui Left Wing, a ragion veduta, ha voluto dedicare un interessante momento di riflessione, in vista della tanto agognata approvazione del nuovo Codice dello Spettacolo.
Già qualche anno fa avevo invitato i colleghi deputati ad occuparsi di questo settore, depositando tre risoluzioni parlamentari (sul sistema nazionale delle orchestre, sulla pratica amatoriale della musica e sulle orchestre universitarie). Trattandosi di un contesto molto frastagliato, ho sempre creduto che fosse utile e necessario ricomporne i diversi tratti e ricondurli all’interno della dimensione più generale delle politiche culturali del paese. La forte parcellizzazione di questo ricco universo orchestrale, d’altronde, la si intuisce dalla stessa normativa di riferimento per le assegnazioni dei contributi ministeriali: ci sono cluster ben definiti e separati, articoli differenziati, entità di stanziamenti molto variegate; il tutto in ragione delle differenti finalità, carattestiche e missioni che ciascuna realtà possiede. Manca quasi del tutto, però, una visione d’insieme che le galvanizzi e le metta in relazione fra loro, individuando elementi utili alla comprensione generale del fenomeno e all’elaborazione di eventuali proposte che rendano funzionale, organico e unitario l’intero settore.
Partiamo da due considerazioni cogenti: le sperequazioni territoriali e il grande tema dell’occupazione. Nella circuitazione e nella diffusione delle attività orchestrali, così come accade per numerosi altri ambiti culturali, nel nostro paese continuano ad esistere gravi squilibri territoriali (non solo nord/sud, ma anche centro/periferia, piccolo attrattore/grande attrattore), sebbene la Conferenza di Faro ribadisca il diritto per tutti i cittadini di accedere in egual modo al patrimonio culturale.
Ne era consapevole lo stesso Ministero che, rispondendo a una mia interrogazione, scriveva: «si conviene con l’onorevole interrogante sul disequilibrio a svantaggio delle regioni del Sud che scontano spesso, così come in altri settori, una minor fruizione delle iniziative culturali in generale e musicali in particolare». Anche il tema occupazionale continua, nel complesso, ad essere sostanzialmente evitato: permane una grande difficoltà per tantissimi laureati dei nostri conservatori di musica ad inserirsi pienamente all’interno delle dinamiche professionali. Peraltro, la didattica all’interno delle istituzioni di alta formazione artistica continua marcatamente a focalizzarsi sulla creazione di profili solistici che, però, in una percentuale altissima di casi, vengono drenati dal mondo della scuola, piuttosto che dal sistema concertistico e performativo. Qualcuno, con perspicacia, dice: «i consevatori negli ultimi anni stanno formando insegnanti di sostegno, piuttosto che i futuri musicisti».
Nell’incontro promosso da Left Wing sono state analizzate e discusse tutte le diverse tipologie orchestrali, a partire, come è ovvio, dalle realtà più solide e storicizzate, cioè le Ico (Istituzioni Concertistiche Orchestrali). Queste orchestre si configurano come infrastrutture culturali di prossimità e quali veri e propri sistemi di produzione musicale, con ampio raggio di azione, spesso indipendente dai confini regionali, e capaci di veicolare la diffusione della cultura musicale su un territorio molto vasto che, ruotando su un asse baricentrico rispetto alla sede legale, copre circa 130-150 chilometri di superficie. Mettere in atto tutte le iniziative che possano contribuire a dare stabilità e sostenibilità economica alle attuali Ico, con particolare riguardo a quelle che insistono su territori più svantaggiati sotto il profilo sociale ed economico, sembra essere oggi la principale preoccupazione, anche in ragione di quella che può essere considerata la più grande ed indiscutibile (ma sottaciuta) novità nel panorama delle orchestre italiane degli ultimi vent’anni, ossia la possibilità di creare nuove Ico.
Nel 2022, infatti, il Ministero ha dato la possibilità a circa una decina di nuove orchestre di essere finanziate, transitoriamente, per un doppio triennio. Alla luce dei reiterati ed indignati appelli che da decenni si levano da più parti per chiedere a gran voce l’apertura di nuove orchestre, ci sarebbe in primo luogo da riflettere con grande attenzione – ma non è questa la sede – sul numero di domande presentate, di gran lunga inferiore rispetto alle potenziali candidate in possesso dei requisiti richiesti. Ad ogni modo, queste nuove realtà sono sorte, così come previsto dal Ministero, su territori in cui non esistevano né altre Ico, né fondazioni lirico-sinfoniche, e in città che fossero sedi di conservatori di musica, proprio a voler sottolineare quell’anello di congiunzione imprescindibile fra il mondo della formazione e quello del lavoro.
Queste nuove orchestre rappresentano una grande opportunità per gli studenti e per i territori interessati ed è assolutamente indispensabile che gli enti pubblici territoriali ne siano pienamente consapevoli e si impegnino, con tutte le forze, per sostenerle congruamente. Non sono mancate, inutile dirlo, situazioni problematiche: sostenere queste nuove realtà a tutti i livelli della filiera istituzionale, per un doppio triennio, sembra più complesso, in molti casi, rispetto alla più semplice possibilità di potenziare quelle storiche e già strutturate; inoltre, c’è chi teme che l’offerta possa eccedere, in alcuni contesti, la domanda culturale, e non manca chi ritiene che i segmenti e gli spazi di pubblico “contendibili” possano inevitabilmente diminuire. Tuttavia, pensare di eludere il dibattito su queste nuove istituzioni credo vada a detrimento dell’intero sistema: e penso a quanto accaduto nel corso dell’affare assegnato al Senato sulle Ico circa un anno fa, quando durante il ciclo di audizioni non è stata coinvolta in alcun modo (ed immotivatamente) nessuna di queste nuove Ico (alcune delle quali, peraltro – e penso alla Rossini di Pesaro –, avevano già da tempo raggiunto i parametri necessari al riconoscimento Ico). Ci troviamo, così, alla vigilia del secondo triennio, senza che sia mai stata effettuata un’analisi seria sul futuro percorso di queste orchestre, sulla qualità della loro produzione e delle loro governance, sulle prospettive di solidità occupazionale, sulla sostenibilità economica, sulle ricadute in termini di crescita dei territori, sulla necessità di stanziare maggiori risorse a fronte dei (possibili) nuovi ingressi.
Il dibattito di Left Wing non ha trascurato altre realtà, come per esempio le orchestre universitarie, su cui in Parlamento con altri deputati ci eravamo attivati favorendo alcune interlocuzioni informali con l’Anvur. In Italia abbiamo 72 cori universitari attivi e circa 15 realtà orchestrali. Le università hanno necessità di strumenti che consentano loro di utilizzare e gestire luoghi e spazi culturali (anche esterni agli atenei) per lo svolgimento delle attività musicali. È assolutamente fondamentale facilitare lo scambio di esperienze e concordare una strategia organizzativa comune per il riconoscimento, anche in termini di crediti formativi, delle attività orchestrali e corali all’interno dei singoli atenei (ragion per cui già nel 2008 il rettore dell’università di Reggio Emilia unitamente a quello di Sassari avevano dato vita a un protocollo per la creazione di una rete di orchestre nelle università italiane). Vincolare una parte – minima, ma vitale – del fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università al sostegno dei cori e delle orchestre universitarie, sarebbe, in assoluto, quanto di più necessario alla sopravvivenza di queste realtà, che si inseriscono armonicamente nell’alveo della “Terza missione” cui tutte le università sono chiamate.
Grande interesse ha suscitato il tema delle orchestre sociali, una realtà in forte crescita e già ampiamente radicata, a titolo di esempio, in regioni come la Puglia, dove, però, si avverte ancora la mancanza di una legge regionale sul tema: queste esperienze, che non sono né confliggenti né alternative rispetto alle altre realtà orchestrali giovanili (su cui ci sarebbe bisogno di fare un focus specifico che ricomprenda anche una necessaria riflessione sulle orchestre dei conservatori di musica), dimostrano quanto l’abitudine a suonare insieme potenzi la capacità di ascolto e abbia ricadute positive sulla formazione del buon cittadino. Non si tratta di percorsi professionalizzanti ma inseriti nella più ampia cornice del welfare culturale e finanche dell’antimafia sociale, radicalmente incentrati sull’inclusione e sulla formazione alla cittadinanza, secondo la concezione promossa da Abreu in Venezuela. Queste realtà si sono mostrate capaci di oltrepassare i confini della disciplina, per contribuire alla formazione dei singoli cittadini e delle comunità.
Un sistema complesso, dunque, quello delle orchestre. Per il quale è fondamentale continuare a lavorare anche a livello politico. Non credo sia più sufficiente accontentarsi di sterili e retorici appelli, a favor di telecamera, sulla necessità di aprire più orchestre, appelli spesso provenienti da contesti dorati e non di rado accompagnati da paragoni tanto arditi quanto impropri con le situazioni orchestrali di altri paesi (Germania in primis); occorre prendersi cura del nostro sistema, complesso ma assolutamente indispensabile ad un Paese in cui la funzione educativa e socio-culturale della pratica musicale, la conoscenza storico-critica dei fenomeni legati alla musica e l’occupazione musicale mostrano livelli di attenzione ancora estremamente marginali.