‘Na cafonata!

Questa è l’esclamazione di Christian De Sica nel film Natale sul Nilo quando il capitano della nave da crociera gli annuncia per la serata “la festa egizia”. È la stessa esclamazione sfuggita a molti romani (e non solo) di fronte alla notizia del progetto di Airbnb di organizzare una experience emozionale, ovvero una serie di scontri di gladiatori dilettanti che si combatteranno sull’arena del Colosseo, però senza belve e con gladi inoffensivi. In cambio, la multinazionale dell’ospitalità turistica offre al Parco Archeologico del Colosseo di finanziare il rinnovo del percorso museografico del sito.

Potremmo dilungarci, per la vostra gioia, su come le norme di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale abbiano per oltre un secolo tentato di difendere il nostro patrimonio culturale da usi impropri e lesivi della dignità. Ma per questa volta ve lo evitiamo.
Ma qualche considerazione va fatta necessariamente.

La newsroom di Airbnb dà notizia della Colosseo experience spiegando, tra l’altro, che «l’iconica arena torna al suo scopo originale di sede di spettacoli». Ma il Colosseo, ovviamente, non tornerà affatto ad essere un’arena dedicata al pubblico spettacolo: al contrario, l’esperienza emozionale è riservata, su prenotazione, a un piccolo gruppo di privilegiati ospiti della piattaforma turistica e si svolgerà dopo la chiusura del sito al pubblico. Oltre alla visione macchiettistica dell’esperienza culturale, che si risolverebbe con un corso acceleratissimo di “arte gladiatoria”, si pone una questione fondamentale che riguarda l’accesso ai beni culturali, che sono patrimonio comune, di tutti e di ciascuno. Di questo patrimonio la parte pubblica deve assicurare a ogni cittadino la conoscenza e soddisfare il bisogno di esperienza culturale, espresso o meno che sia. Perché l’essenza del ruolo e delle funzioni pubbliche nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio artistico e culturale hanno come focus proprio la loro fruibilità pubblica e universale. E si tratta di una questione di democrazia reale, se è vero – e noi ne siamo convinti – che l’accesso alla cultura e alla conoscenza è un diritto fondamentale che va assicurato, stimolato e reso esigibile.

Questa “nuova” idea di esperienza emozionale al Colosseo ci porta invece, ancora una volta, al colpevole equivoco sul concetto e gli obiettivi della valorizzazione del nostro patrimonio, sistematicamente stravolta e trasformata in attività di pura speculazione commerciale. Il che avviene da diverso tempo attraverso la pertinace polarizzazione dello sfruttamento di pochi – e sempre gli stessi – luoghi carismatici. Non può neanche essere più definito turismo culturale, estremo alibi della mercificazione del patrimonio, visto l’abbassamento progressivo della qualità delle visite e dei servizi offerti ai visitatori, la spinta verso l’eventismo e la spettacolarizzazione dell’esperienza (e non “experience”) culturale.

Perché, diciamocelo pure senza infingimenti, è la ricerca di denaro che ispira da alcuni anni le politiche di valorizzazione del patrimonio culturale e quelle di promozione delle attività culturali.

E poco importa che i siti più attrattivi per il turismo e per il marketing siano diventati sfondi per i selfie e scenografie di reels “coinvolgenti”, luoghi ad esclusivo uso di un turismo tanto vorace quanto distratto da cui le comunità locali sono espulse anche a causa della totale assenza di politiche, di azioni capaci di portare le persone, la gente, i giovani, i “principianti” della cultura nei musei, nei teatri, nelle biblioteche.

Per contrastare questa china servirebbe quella cosa che si chiama “politiche per la cultura”. Ma invece si preferisce discutere di nomine, di riorganizzazioni e addirittura di egemonia culturale.

Tutto questo lo si fa in nome del mito di un’economia basata sulla rendita prodotta dalle vacanze altrui, della favola di un’Italia dedita alla monocultura turistica e disposta a tutto, o quasi, per conquistare un gitante in più. Anche a stalkerare il Colosseo.