Nella presentazione del suo governo al Senato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha formalmente ribadito l’impegno, già contenuto nel «contratto di governo» tra Movimento 5 Stelle e Lega, a introdurre la flat tax con «aliquote fisse» e «un sistema di deduzioni che possa garantire la progressività dell’imposta». A nostro avviso si tratta di un grande imbroglio. È sufficiente, infatti, visualizzare su una carta geografica i paesi che adottano un sistema fiscale di tipo progressivo e quelli dove è in vigore la flat tax, per comprendere come le due formule siano antitetiche e che l’adozione in Italia della flat tax renderebbe il nostro paese più ingiusto e più povero, allontanandolo dalla cerchia di nazioni prospere e socialmente avanzate dell’Europa occidentale. Infatti, mentre la flat tax è adottata solo in alcuni paesi dell’Europa orientale e in Russia, la tassazione progressiva sui redditi è in vigore in tutte le nazioni dell’Europa occidentale, con l’aliquota massima generalmente al 45% (Germania, Regno Unito, Francia, Spagna, per citare solo i principali), e in alcuni casi persino superiore (come ad esempio in Belgio e nei Paesi Bassi). Non si tratta di un caso, perché la fiscalità progressiva è un fondamento costitutivo ed essenziale del modello sociale europeo, basato sul welfare pubblico e universale, e il suo superamento equivarrebbe a un “cambiamento di regime” e a un pesante declassamento del paese che lo porterebbe fuori dall’area del mondo più prospera e avanzata del pianeta. Peraltro, è bene ricordare che la tassazione progressiva esiste anche negli Stati Uniti, è stata confermata persino da Donald Trump, che è stato criticato per aver favorito i ricchi limitandosi a ridurre l’aliquota massima di due punti e mezzo percentuali (dal 39,5 al 37%) e mantenendola quindi a circa il quadruplo dell’aliquota minima.
Per questo è compito del Partito democratico contrastare questa proposta con tutte le sue forze nel Parlamento e nel paese, nel quadro di una dura opposizione al governo Lega-Cinquestelle e al suo programma conservatore e regressivo, di cui la flat tax costituisce il perno politico e ideologico, oltre ad essere la misura di gran lunga più costosa, che da sola vale più della metà di tutte le proposte contenute nello sciagurato contratto. Occorrerà spiegare a tutti i cittadini che la flat tax è una misura incostituzionale, ingiusta e insostenibile, e che essa non ha nulla a che vedere con la necessaria riduzione delle tasse sul lavoro e sui fattori produttivi e con la necessaria semplificazione e riorganizzazione del nostro sistema fiscale. Come è noto, la Costituzione italiana prescrive che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53 Cost.). La proposta contenuta nel contratto di governo appare da questo punto di vista chiaramente incostituzionale. Il tentativo di aggirare il requisito della progressività introducendo due aliquote (15% e 20%), e una deduzione fissa di 3.000 euro sulla base del reddito familiare, determina infatti una limitatissima progressività verso il basso. Ciò non elimina il fatto che i percettori di alti (e altissimi) redditi avrebbero un’aliquota molto bassa e quasi identica a quella applicata ai redditi medi e medio-bassi, avvantaggiandosi così in misura smisuratamente maggiore degli altri del nuovo regime e cessando quindi di contribuire in misura progressiva e proporzionata alla loro capacità contributiva alle spese pubbliche, come richiesto dal dettato costituzionale.
La misura di questa palese incostituzionalità è data dall’enorme iniquità della flat tax. Per la stragrande maggioranza dei contribuenti il beneficio sarebbe infatti molto limitato, e si ridurrebbe fino a divenire nullo per i redditi più bassi, mentre sarebbe notevolissimo per i più ricchi, traducendosi quindi in un significativo aumento delle diseguaglianze. Per fare solo alcuni esempi, come è stato recentemente calcolato da Massimo Baldini e da Leonzio Rizzo su lavoce.info, mentre un nucleo familiare con 40.000 euro di reddito avrebbe una riduzione complessiva di appena 268 euro l’anno, con una variazione del reddito pari allo 0,7%, il beneficio salirebbe a 3.247 per una famiglia che percepisce 60.000 euro (più 7%), di 15.866 sopra i 110.000 euro (più 21%) e di ben 67.940 euro (più 39%) per chi guadagna 300.000 euro l’anno. Il beneficio (a spese del bilancio pubblico) diverrebbe poi stratosferico per i super-ricchi, come calciatori, amministratori delegati delle banche e categorie simili. Dall’altro lato dello spettro, i contribuenti con meno di 35.000 euro di reddito familiare sarebbero addirittura penalizzati e in teoria avrebbero un aumento della pressione fiscale, per evitare il quale il contratto promette una clausola di “non peggioramento” della situazione contributiva che negli anni potrebbe facilmente perdersi e che non fa comunque venir meno l’evidente ingiustizia di una misura costosissima ma ininfluente per la maggioranza dei contribuenti, e in particolare per chi avrebbe maggiormente bisogno di un aumento del reddito disponibile.
A questa obiezione, Lega e Movimento 5 Stelle rispondono che i contribuenti con alti redditi sono pochi e quindi questa ingiustizia sarebbe poco rilevante, e che comunque con la flat tax «ci guadagnano tutti», quindi non ha senso lamentarsi. Sono obiezioni risibili. Innanzitutto, il fatto che i contribuenti con redditi alti siano percentualmente pochi rende ancora più assurda la logica di un provvedimento molto oneroso per il bilancio pubblico che premia solo la minoranza più benestante degli italiani e non è di alcun beneficio per tutti gli altri. È bene infatti sapere che dei circa 41 milioni di contribuenti italiani, più di 30 milioni, pari al 75%, sono sotto i 26.000 euro di reddito, e che quindi la costosissima flat tax sarebbe sostanzialmente irrilevante per ben tre quarti degli italiani. Allo stesso tempo, e questo è un punto fondamentale, il contributo al bilancio dello stato dei contribuenti più ricchi è quantitativamente molto significativo, nonostante il loro numero modesto. Basti pensare che i soli 35.719 italiani (cioè appena lo 0,09% dei contribuenti) che dichiarano più di 300.000 euro l’anno, con l’aliquota attuale al 43% sopra i 75.000 euro pagano quasi 8 miliardi di tasse pari a circa il 5% del totale delle entrate Irpef, che è più dell’intero costo dell’Università italiana per il bilancio dello Stato.
Da questo punto di vista, le crude cifre sui costi della flat tax, che spiegano la sua totale insostenibilità, confutano con chiarezza la tesi del «ci guadagnano tutti» e rendono evidente che al contrario per la stragrande maggioranza degli italiani la flat tax avrebbe un costo pesantissimo. Se si confrontano infatti le principali voci del bilancio dello stato con il mancato gettito che la proposta Salvini-Di Maio determinerebbe, si vede con chiarezza che la flat tax comporterebbe necessariamente la fine della gratuità di alcuni servizi fondamentali dello stato, il cui costo sarebbe pagato dai cittadini in proporzione esattamente inversa rispetto al beneficio della flat tax. Sulla base della proposta contenuta nel contratto di governo è possibile infatti stimare un mancato gettito per lo stato di circa 70 miliardi, che verrebbe compensato in misura minima dall’aumento dei consumi dei contribuenti più benestanti (come è noto la propensione al consumo si riduce quanto più aumenta il reddito). Di questi 70 miliardi, circa 25 verrebbero dai contribuenti della fascia di reddito più elevata (sopra i 75.000 euro), che beneficerebbero dello sconto fiscale maggiore con l’abbattimento dell’aliquota dal 43 al 20%. Se si considera che l’intero comparto scuola e università costa 65 miliardi l’anno, e che tutta la spesa sanitaria pubblica ammonta a 113 miliardi (dati 2017), mentre la (insufficiente) spesa sociale, escluse le pensioni, vale 78 miliardi, si comprende bene come la flat tax comporterebbe inevitabilmente lo smantellamento di interi comparti della spesa pubblica e renderebbe inevitabile il passaggio a un sistema in cui il costo di servizi primari come scuola e sanità ricadrebbe in misura significativa sui cittadini con costi altissimi.
È facile immaginare come, dopo un avvio in cui la flat tax verrebbe (teoricamente) finanziata con il maxi condono per gli evasori prefigurato dal contratto, dagli anni successivi sarebbero i pagamenti privati della sanità e dell’istruzione le principali fonti di risparmio di spesa pubblica, oltre a un aumento della fiscalità locale per i servizi sociali ed i trasporti. In sostanza quindi la flat tax, lungi dal beneficiare “tutti” i cittadini, costituirebbe un colossale trasferimento di risorse dalle tasche della stragrande maggioranza dei cittadini verso quelle di una piccola minoranza. Di questi ultimi, ben pochi si avvantaggerebbero del deterioramento del clima sociale ed economico che questo brutale imbarbarimento del paese determinerebbe, ed è per questa ragione che nei civili, avanzati e prosperi paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti la progressività delle imposte è un principio cardine difeso e rispettato da tutto lo spettro politico e da una larghissima maggioranza degli opinionisti.
Da questo punto di vista colpisce come tra i commentatori italiani sia stato recepito passivamente il tentativo di Lega e Cinquestelle di sminuire la portata di quanto deciso nel contratto di governo. «Tanto non lo faranno», dicono molti, come se l’enormità di quanto scritto fosse la tesi congressuale di forze politiche residuali, e non il nucleo centrale della piattaforma economica di un accordo sottoscritto da due forze politiche che hanno la maggioranza in Parlamento, e che è stato riconfermato dal presidente del Consiglio in Parlamento. Il braccio di ferro che si è svolto sul ministero dell’Economia dimostra invece quanto serie siano le partite economiche, che non riguardano solo normali alternative di politica economica tra conservatori e progressisti ma investono il cuore del modello sociale dell’Italia e la sua collocazione europea in misura non meno rilevante delle ambiguità nei commenti di autorevoli membri dell’esecutivo e della maggioranza a proposito dell’appartenenza alla moneta unica e dell’assenza di coperture nel programma di governo. Per fare l’opposizione a questo modello economico e sociale che si vuole imporre agli italiani, non ci si può limitare ad agitare una generica contrarietà nell’attesa passiva che dall’opposizione si colgano i frutti delle presunte inevitabili difficoltà del governo. Non siamo più in un sistema politico maggioritario fondato sull’alternativa tra due coalizioni stabili. Dobbiamo prendere sul serio la sfida della cosiddetta terza repubblica e del sistema proporzionale in vigore, e concepire una opposizione all’altezza della nuova fase. Da questo punto di vista, anche il paragone con la prima repubblica è fuorviante. Per le note ragioni, tra il 1948 e il 1989 l’Italia è stata una democrazia bloccata in cui i ruoli di maggioranza e opposizione erano definiti a priori dalla collocazione internazionale.
È necessario fare un’opposizione riformista che sappia dire e fare le stesse cose sia quando si rivolge all’opinione pubblica che quando si esprime nelle aule parlamentari. Proprio perché la flat tax è il nucleo politico e ideologico del contratto di governo, il Partito democratico ne deve fare utilmente uno dei fulcri della sua opposizione sia in Parlamento che tra i cittadini, denunciando la natura incostituzionale, iniqua e insostenibile della proposta e disvelando il grande imbroglio di una misura che renderebbe i ricchi ancora più ricchi e impoverirebbe la maggioranza degli italiani. Per aprire gli occhi a tanti cittadini che non hanno percezione di ciò che sta per accadere è necessario promuovere una mobilitazione civica, che non sia percepita come una strumentale iniziativa di partito, ma viva attraverso la costituzione di comitati che nei territori e nella società organizzino un dibattito pubblico intorno alle scelte fiscali che riguardano la costituzione materiale dell’Italia ed il suo futuro civile e sociale. Confortano in questo senso le prese di posizione della Conferenza episcopale italiana e della Confindustria contro questa riforma fiscale e il nostro auspicio è che sul fronte sindacale le prime critiche si traducano in una mobilitazione adeguata alla pericolosità sociale della flat tax. Ma serve una capillare campagna nel paese per creare da subito un senso comune attorno alla profonda ingiustizia di quanto proposto nel contratto di governo che non ha nulla a che vedere con una doverosa riorganizzazione delle politiche fiscali, con la necessità di riduzione della tassazione del lavoro, con la semplificazione richiesta dalle imprese e dai professionisti.
Si strumentalizzano problemi reali dell’attuale sistema fiscale per costruire consenso attorno a una operazione che vuole declassare l’Italia da paese della serie A continentale, con un welfare stabile e diffuso, a un’immeritata serie B, assieme ai paesi di recente economia di mercato dei Balcani e dell’Est europeo. Dobbiamo fare un’opposizione dura a un governo di destra che è tale non perché lo diciamo noi ma perché si appresta a fare cose di destra. Prima lo capiamo, prima smettiamo di piangerci addosso, e più utili saremo all’Italia.