Non dipende semplicemente dalla naturale pigrizia, bensì anche dalla vanità degli uomini (da una malintesa libertà), il fatto che coloro che hanno di che vivere, non importa se nella ricchezza o parcamente, si ritengano superiori rispetto a coloro che invece per vivere debbono lavorare. L’Arabo, al pari del Mongolo, disprezza l’abitante della città e si sente superiore a lui, perché il girovagare nel deserto con i suoi cavalli e le sue pecore è più piacevole del lavoro. Il Tunguso crede di scagliare una maledizione tra il capo e il collo del fratello, dicendogli: «Che tu possa allevare da te il tuo bestiame come il Burate!». Questi respinge la maledizione e risponde: «Che tu possa coltivare il campo come il Russo!». Quest’ultimo, a sua volta, secondo il suo modo di pensare, dirà: «Che tu possa sedere al telaio, come il Tedesco!». In una parola: tutti si sentono superiori nella misura in cui credono di non aver bisogno di lavorare; e in base a questo principio ci si è di recente spinti addirittura fino al punto di annunciare apertamente e pubblicamente una presunta filosofia, secondo la quale, per venire in possesso dalle sue fondamenta di tutta la sapienza a cui si mira con la filosofia non c’è bisogno di lavorare, ma solo di stare ad ascoltare e gustare l’oracolo che possediamo in noi stessi.
(Immanuel Kant, Di un tono di distinzione assunto di recente in filosofia)
a cura di Massimo Adinolfi