Porta direttamente a Damasco la traccia di polvere da sparo lasciata dalla bomba umana che prima della mezzanotte di venerdì scorso è esplosa davanti a una discoteca, sul lungomare di Tel Aviv. L’attentato che ha ucciso cinque persone e ne ha ferite una cinquantina. Si può dire che porti a Damasco non solo in modo diretto e funzionale, ma soprattutto come localizzazione dell’epicentro di movimenti tellurici di più larga portata, ma che si possono tradurre anche in atti di terrorismo come quello citato.
Per quanto riguarda i legami diretti, è anche l’Autorità Nazionale Palestinese – nel comprensibile sforzo di indicare come mai un così grave attentato sia potuto avvenire a solo sedici giorni dal vertice di Sharm As Sheik, in una condizione di “armistizio” informale ma ferreo – a indicare in modo abbastanza preciso e inedito legami e fili che portano in Siria: in particolare verso Hizballah, che costituisce l’anello di congiunzione decisivo nella sempre più strategica alleanza per lo status quo stretta da diversi anni tra Siria e Iran. Un’intesa riaffermata solennemente nel suo viaggio a Teheran dal capo del governo siriano, proprio mentre l’ex premier libanese Rafiq Hariri saltava in aria e Bush in Europa minacciava i due paesi.
Messi sotto pressione, due alti esponenti delle Brigate dei martiri di Al Aqsa hanno infatti affermato che sarebbe stato un importante ufficiale di Hizballah, Kais Obeidi, a reclutare i due attentatori suicidi. Lo stesso ufficiale che poi avrebbe chiesto ai due esponenti palestinesi di fare assumere alla loro organizzazione la responsabilità dell’operazione. Qualche ora dopo questa rivelazione, la leadership della Jihad islamica a Damasco ha rivendicato l’attentato a sua volta. Tutto questo mentre esponenti della stessa Jihad – basati però nei territori palestinesi – così come esponenti di Hamas e delle Brigate dei martiri di Al Aqsa, affermavano che le loro organizzazioni rimanevano vincolate all’informale “cessate il fuoco” attualmente in vigore.
Questi sparsi elementi corroborano l’analisi che indica come in Siria, sarebbe a dire nel sistema Siria-Libano, siano in atto forti movimenti tellurici, che lì hanno effetti visibili perché più fragile è il locale sistema politico; ma che hanno stretti legami con ciò che succede tra palestinesi e israeliani, nonché con la politica statunitense nella regione (verso l’Iraq ma non solo) come è del resto abituale in Medio Oriente, una delle regioni del mondo a più alta interdipendenza.
La tregua raggiunta tra Sharon e Mahmud Abbas turba lo status quo regionale, avviato su un percorso di confronto armato a molti livelli. Per i fautori dello status quo – cioè per coloro, come Siria e Iran, la cui debolezza deve necessariamente trovare un puntello in una situazione di tensione – è allarme rosso, perché questa tregua sembra potersi consolidare. Il primo marzo si aprirà a Londra una conferenza internazionale per aiutare lo sforzo delle autorità palestinesi, mentre la tregua informale raggiunta da Mahmud Abbas con Hamas, Jihad e Brigate dei martiri di Al Aqsa è particolarmente minacciosa e rischia di indebolirli, perché si basa su una loro spaccatura tra pragmatici (che vivono nei territori palestinesi) e intransigenti (all’estero).
Se questa tregua regge, il conflitto si potrebbe spostare in casa. E questo, a latere, spiega il forte interesse e lo sforzo statunitense affinché venga rispettata, concretizzatosi insolitamente con una diretta assunzione di responsabilità nella nomina di un coordinatore per la sicurezza, il generale William Ward, che dovrebbe agire da arbitro tra palestinesi e israeliani, controllando le forze di sicurezza palestinesi e cercando di prevenire risposte israeliane che potrebbero far deragliare il processo politico. In Iran, questo può significare il ritorno delle rivendicazioni popolari per maggiore libertà e benessere economico. In Libano può significare che diventino maggioranza quelle voci – dopo la morte di Rafiq Hariri capitanate dal coraggioso leader druso, membro dell’Internazionale Socialista, Walid Jumblatt – che chiedono la separazione del tavolo libanese da quello siriano per quanto riguarda le negoziazioni per una pace con Israele. In fondo, il Libano non ha – al contrario della Siria – contenziosi territoriali aperti con Israele: la richiesta della tenuta di Sheba (Har Dov per gli israeliani) che costituisce il pretesto di Hizballah per continuare gli attacchi verso Israele, è stata decisamente rigettata dalle Nazioni Unite. Se Israele smette di massacrare i palestinesi, si dicono queste forze, negoziare diventa possibile. A quel punto, perché il Libano dovrebbe attendere la Siria per fare la pace con Israele? E’ una domanda che si fanno sempre più persone in Libano, a partire da quegli studenti che chiedono “verità”, accampati nelle tende sorte accanto al cratere causato dalla bomba che ha ucciso Hariri.