C’è in giro un bel po’ di pessimismo sulle sorti dell’Italia e dell’Europa, ma anche dell’Occidente e diciamo pure del Pianeta, ed è obiettivamente molto difficile opporre buoni argomenti ai lamenti dei catastrofisti. Negli Stati Uniti il capo della Casa Bianca, quello che la propaganda di un tempo amava definire «il leader del mondo libero», si dichiara letteralmente innamorato del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, vale a dire dell’ultimo e non meno sanguinario discendente di un’illustre dinastia di tiranni, a capo di uno dei regimi più oppressivi e spietati della storia. In mezza Europa, dall’Ungheria alla Polonia, si affermano e si consolidano partiti che alimentano campagne di odio contro gli stranieri e utilizzano parole d’ordine sempre più scopertamente antisemite, mentre dal governo procedono alla rimozione di ogni contrappeso istituzionale al loro potere, per costruire quella che con un eufemismo si chiama oggi democrazia illiberale. Frattanto in Italia, per non restare indietro, i loro epigoni gialloverdi sembrano essersi decisi a provocare subito l’incidente capace di portarci fuori dall’euro, mettendo nel conto una spaventosa crisi finanziaria, e forse anche costituzionale. E come se non bastasse, da stamattina abbiamo anche il sindaco di Riace, modello di integrazione, agli arresti per eccesso doloso di accoglienza, e un ministro dell’Interno che esulta sui social network rilanciando la notizia, tanto per aggiungere un altro po’ di aria di Visegrad al bel clima che si respira. Si capisce che la buona riuscita della manifestazione convocata domenica scorsa dal Partito democratico, a fronte di tutto questo, non sia di per sé un motivo sufficiente per farsi travolgere dall’entusiasmo.
C’è però qualcosa di eccessivo anche nel catastrofismo di tanti osservatori. L’impressione è che il nostro dibattito pubblico sia sempre in ritardo di un giro. Dal dicembre 2016 alle elezioni del marzo 2018, abbiamo passato più di un anno a sentirci ripetere da ogni sondaggista, analista e commentatore come gli italiani avessero improvvisamente riscoperto, con il governo Gentiloni, il valore del silenzio operoso, della serietà e della competenza che non hanno bisogno di slogan urlati e facile demagogia. Ce lo hanno ripetuto con la stessa assertiva monotonia con cui alla vigilia delle elezioni del 2013, quelle della prima esplosione del Movimento 5 Stelle su scala nazionale, ci spiegavano come gli elettori, con il governo Monti, avessero riscoperto il valore della sobrietà e del rigore. Del resto, almeno in Italia, a questo servono i sondaggi: a spiegarti, dopo, quello che non avevano capito prima. E siccome le ultime elezioni, come si sa, sono andate molto bene per le forze populiste e molto male per i democratici, da qualche mese sembra che, qualunque cosa dicano o facciano i partiti di governo, il popolo sia tutto per loro. Sarà.
Certo, in questo momento, i populisti danno l’impressione di avere nelle vele il vento della storia, e anche una narrazione molto efficace, per non dire una visione del mondo. Ma il vento della storia può girare all’improvviso, e le grandi narrazioni ideologiche ci mettono un attimo a diventare indigeribili e rinsecchiti polpettoni. La lunga intervista di Giuliano da Empoli a Steve Bannon pubblicata ieri dal Foglio è una lettura interessantissima, l’abilità del personaggio e la forza retorica del suo discorso non si discutono, e nel grande affresco storico e geopolitico che ne viene fuori si può trovare persino un certo gusto letterario. Ma è, per l’appunto, letteratura. E se la storia e la politica del mondo seguissero le regole della letteratura Marine Le Pen sarebbe al governo della Francia da una decina d’anni, o perlomeno dalle ultime elezioni presidenziali, e non sarebbe stata travolta da un presidente venuto su dal nulla, con un partito costruito per l’occasione in pochi mesi.
Può darsi, insomma, che sia ormai scoccata l’ultima ora dell’Europa democratica, culla dei diritti umani e dell’economia sociale di mercato, come molti acuti osservatori sembrano profetizzare. Può darsi che la democrazia liberale sia destinata a cadere in tutto l’Occidente. E tuttavia, finché ci saranno militanti con la voglia di tornare a dare battaglia in piazza e nelle urne, giornalisti con la voglia tornare a raccontare le cose come stanno e intellettuali con la voglia di tornare a pensare con la propria testa, forse potremo ancora illuderci, come l’ultima tribù di galli asserragliata nel suo piccolo villaggio, che la caduta del cielo sarà pure certa, ma di sicuro non sarà domani.