L’ Italia non è il paese di Don Abbondio, quello che il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare; è, più precisamente, il paese in cui ogni occasione è buona per citare Don Abbondio, al solo scopo di accusare qualcun altro di mancanza di coraggio.
La premiazione dello scrittore turco Orhan Pamuk, insignito la settimana scorsa del Nobel per la letteratura, ha significato per i giornali italiani, e per frotte di editorialisti, la celebrazione del coraggio di uno scrittore. (In molti casi, ci vuole davvero del coraggio perché un giornalista si metta a trafficare con la grande letteratura nei giorni immediatamente a ridosso del premio, ma non è di questo che voglio parlare). Pamuk è finito sotto processo nel suo paese per aver offeso l’identità turca scrivendo del genocidio armeno (ha anche qualche idea sul “metodo Bush”, ma quelle sono passate sotto silenzio); incarna quindi, senza particolari clamori ma con caparbia ostinazione, la figura dell’intellettuale scomodo, capace di servire la verità piuttosto che il potere. Anche chi ha storto la bocca prima dell’assegnazione del premio, lamentando come l’Accademia Reale di Svezia si sia troppe volte orientata nelle sue scelte secondo criteri squisitamente politici, o almeno extra- e para-letterari (come se della letteratura rimanesse qualcosa, una volta che le sia tolto l’extra- o il para-), anche chi non è riuscito a mandar giù lo scorso anno la rabbia di Harold Pinter o, prima, gli sberleffi di Dario Fo, questa volta non ha trovato nulla da ridire sul nome del vincitore, e ha messo la sordina al suo scetticismo. Prendete per esempio Pierluigi Battista: scrive un commento schietto e franco alla vigilia del Premio, per augurarsi che finalmente l’Accademia metta da parte i suoi pregiudizi politici, e poi, a premiazione avvenuta, essendo benvenuto il nome, spende la delicata grazia di un’avversativa per sistemare la sua opinione di quattro giorni prima: “È vero, c’è qualcosa di insano in questo insistere sulla cornice politica o comunque extraletteraria delle motivazioni con cui si è assegnato un premio dedicato pur sempre alla letteratura. Ma…” – e dopo un candido “ma” la sintesi tra letteratura e politica è bell’e felicemente, anzi “miracolosamente”, compiuta. E siccome Battista lascia al critico il compito di giudicare la qualità letteraria, non ha difficoltà ad occuparsi, questa volta con soddisfazione, dell’impatto simbolico, cioè e per l’appunto politico, della scelta dell’Accademia svedese. Quattro giorni e un “ma”, un nome politicamente gradito, e l’opinione è presto che aggiustata.
Ovviamente, Battista è anche tra i fustigatori implacabili del politicamente corretto, tra coloro cioè che mettono il proprio coraggio soprattutto nello stigmatizzare le vere o presunte timidezze altrui, strappando con eroico gesto la cortina di parole ipocrite con la quale i pavidi fingono di non vedere il nemico. Così gli articoli contro la pusillanimità del costume intellettuale italiano si sono sprecati, al tempo dell’assassinio di Theo Van Gogh. È il momento di alzare la voce, s’è detto, c’è lo scontro di civiltà, e invece gli intellettuali nicchiano (ragionano, cioè sottilizzano: in tempi di scontro la differenza tra ragionare e sottilizzare non è chiaramente avvertita). Non c’è volta in cui qualcuno non si lamenti di parole dette troppo sommessamente, invece che forti e chiare. Persino le malaccorte citazioni del Papa, nel discorso di Regensburg, sono stato motivo per reprimende nei confronti di chi ha notato l’inopportunità di quelle parole, invece di limitarsi a difendere il diritto del Papa di pronunciarle. Giusto, giustissimo. È stata poi la volta della giovane scrittrice Elif Shafak, portata alla sbarra in Turchia per lo stesso reato di cui qualche anno fa è stato accusato Pamuk; e infine, un paio di settimane fa, è toccato a Robert Redecker, il professore francese le cui idee sulla religione musulmana hanno scatenato la violenza (per ora per fortuna solo verbale) dei fondamentalisti islamici. In tutti questi casi, c’è sempre stato un principe degli editoralisti di questo o quel giornale a invitare le teste pensanti del nostro bel paese ad esprimere senza reticenze, senza ambiguità, con forza e determinazione, la propria convinta solidarietà. Giustissimamente.
E la lista, purtroppo, è destinata ad allungarsi. Prima però che qualcuno ce lo ricordi rudemente, richiamandoci al dovere civile di alzare la voce per difendere i diritti fondamentali di libertà dell’Occidente contro i deleteri malintesi del culturalismo, del relativismo, della tolleranza e di non so cos’altro di debole, di fiacco o di connivente, vorremo avvertire gli illustri editorialisti di cui sopra che la lista si è allungata già: in casa nostra. C’è un giovane scrittore italiano, Roberto Saviano, che ha scritto un libro sulla camorra, Gomorra, funesto e furente. Non è un libro che le manda a dire (che è peraltro una buona definizione di quel che ha da essere la letteratura). A quanto si legge dalle cronache, Roberto Saviano è, o sta per essere, sotto programma di protezione. Il libro rischia di rendergli la vita impossibile. Qualcuno ci prova già, accusandolo di protagonismo. Leggo che il sindaco di Napoli gli avrebbe dato del fissato. Ora, non so bene cosa pensi Saviano dell’esposizione mediatica di questi giorni. Quel che so, è che non mi piace la divisione del lavoro: Saviano finisce in cronaca, come strano animale che non si sa bene come prendere, con contorno di osservazioni assai poco intelligenti – perbacco com’è giovane!, ma sarà vera gloria?, forse cerca i riflettori… – mentre i campioni del giornalismo, prestati alle lettere, ci spiegano Pamuk.
Aristotele diceva che i temerari spesso ostentano un coraggio che non hanno. Non hanno coraggio, ma fanno i coraggiosi. Sarebbe importante essere subito smentito, non in cronaca, ma in un vibrante editoriale.
Post Scriptum – Al Tg1 di ieri sera, Umberto Eco ha spiegato pensoso che non c’è ragione perché si mobilitino gli scrittori nel caso di Saviano. Diversamente dal caso Rushdie, che ha preso ad esempio di un attentato globale alla libertà di pensiero e di espressione, nel caso di Saviano si conoscono i nomi e i cognomi. Basta solo che lo Stato faccia il suo dovere. Gli si vorrebbe però far osservare che, esprimendosi in questo modo, a torto o a ragione ha dato l’impressione di fregarsene, avendo rinunciato a dedicare a Roberto Saviano almeno un secondo del suo tempo per una minima manifestazione di solidarietà, come si potrebbe fare anche solo dicendo, all’interno del più ampio dei ragionamenti, di voler cogliere l’occasione per. Eco ha detto che il caso Saviano è come quello di Falcone o Borsellino. Falcone o Borsellino davano fastidio alla mafia che li ha tolti di mezzo. Saviano dà fastidio: dunque è lo stesso. Che Saviano dia fastidio per l’uso che fa della scrittura, pare allo scrittore Eco irrilevante. Oppure gli pare irrilevante l’uso che Saviano fa della scrittura: il che la direbbe lunga sull’uso che ne fa lui. In realtà, Saviano non dà fastidio solo perché fa rumore, e la camorra preferisce il silenzio, ma perché fa opera di verità. Non la fa processualmente o giudiziariamente o investigativamente, ma letterariamente. Il suo libro finisce in libreria, non in un fascicolo processuale o negli atti di una commissione. Eco fa mostra di non vedere la differenza. Eco ha ragione di distinguere casi così diversi come quello di Saviano e quello di Rushdie: si tratta di minacce provenienti da mondi diversi, con finalità diverse. Ma ha torto, torto marcio, nel ritenere che solo nel secondo caso sarebbero in gioco le idee e il diritto di esprimerle. L’intimidazione nei confronti di Saviano non è la minaccia a un funzionario di polizia perché non investighi, ma è la minaccia a un uomo perché non scriva (o perché ha sbagliato, scrivendo). La minaccia esercita dunque il suo potere intimidatorio verso chiunque intenda scrivere con verità: la cosa riguarda Eco?
Ma immaginiamo che gli scrittori invece si mobilitino: bisogna convenire che sarebbe un po’ ridicolo. Immaginate che Eco si mobiliti: che farà? Firmerà un appello? Chiederà un minuto di silenzio prima di dare l’ennesima conferenza? Listerà la bustina a lutto? Quello che non va e che effettivamente suona ridicolo, non è la mobilitazione: a ben vedere, sono questa specie di scrittori. Ai quali pare fuori luogo mobilitarsi in un caso come questo, e va bene, ma non pare fuori luogo dare un’intervista per spiegare perché non è il caso di mobilitarsi. Come quel mio amico che telefonava a parenti e conoscenti per spiegare loro perché non li invitava al suo compleanno. Chissà perché, la spiegazione non è mai riuscita a nessuno non dirò convincente, ma nemmeno sincera.