Parisi, Bazoli e la lezione di Turati

Un anno fa le primarie. Le file, le fotocopie per le schede, lo stupore. Piazza Santi Apostoli, a sera, occupata da forze dell’ordine e giornalisti. E il “popolo delle primarie”, fuori dalle transenne, desideroso di festeggiare. Il corpo elettorale aveva reagito alla sollecitazione in maniera inaspettata, come il corpo di un paziente da lungo tempo in coma, che si risveglia all’improvviso. Dimostrando non la frammentazione, la disgregazione, il disorientamento, lo spappolamento di cui tanto si era parlato fino al giorno prima, ma l’esatto opposto.
Le primarie sono state definite un urlo. Un urlo dettato dall’angoscia. Un allarme lanciato dal popolo alla classe politica. Cosa ne è rimasto oggi, a un anno di distanza? Molte persone dicono che quello slancio oggi non ci potrebbe più essere, che c’è delusione, quasi pudore, per quello che sta combinando il governo. E’ ritornata l’incertezza, la fragilità, il disorientamento. E tutto questo non è senza ragione.
Le primarie sono state un urlo che non è riuscito a diventare un racconto, una narrazione, un esodo. Le primarie non sono riuscite a essere compiutamente l’inizio di un processo capace di far crescere e maturare una cultura politica, una comunità nazionale, la sua classe dirigente.
Forse la ragione sta anche nel fatto che delle primarie si è voluta dare un’interpretazione riduttiva, certamente. Ma forse una parte di responsabilità la porta anche chi ne ha voluto dare un’interpretazione palingenetica.
A questo proposito, in un’intervista rilasciata lunedì al Corriere della sera, il ministro Parisi cerca di mettere a fuoco alcune questioni vere. E’ bella la metafora di “forze politiche” e “partecipazione dei cittadini” rispettivamente come scheletro e corpo di un soggetto politico. Ma quando si tratta di definire più compiutamente cosa possa essere un partito, alla sollecitazione del giornalista che gli chiede se sta ipotizzando il “partito di massa” il ministro risponde come al solito, sparando la palla in tribuna. Risponde così: “Quei partiti si pensavano come una contro-società. Nati per contrastare l’esclusione sociale avevano costruito attorno a sé un mondo a parte: organizzando tutte le dimensioni della vita, dalle economiche alle ricreative. Oggi la società è cambiata e la domanda di partecipazione non può dividersi più secondo vecchie categorie e vecchie forme”.
Rispetto a questa concezione ben diverse risuonano le parole di Giovanni Bazoli, il giorno prima, sempre sul Corriere: “La grande politica non è quella che divide ma quella che unisce; e nella storia d’Italia la grande politica non è stata quella che ha aggravato le fratture ma che ha creato convergenze… – e già questa parola è tutto un programma – Al tempo dell’Assemblea Costituente…. E tutti ricordiamo l’unità delle forze politiche nell’affrontare il terrorismo”.
Quello di Bazoli non è un discorso che vuole oggi giustificare larghe intese o grandi coalizioni. Lo spiega chiaramente nel seguito dell’intervista. Il messaggio è chiaro: le radici e le ragioni di una politica che voglia essere grande sono da ritrovare nella “storia d’Italia”. Dunque – immaginiamo – anche e forse soprattutto in quei partiti di massa che l’hanno fatta, almeno in grande parte, la storia dell’Italia repubblicana. Nella politica, dice Bazoli, ci deve essere spazio per il confronto ideologico, ma anche spazio per la “programmazione e la predisposizione degli strumenti necessari alla crescita civile ed economica”. Chissà che direbbe Parisi, apostolo della società civile, dell’uso del termine programmazione.
Bazoli è categorico: di questa politica nel nostro paese c’è un gran bisogno: “Usciamo da un’ubriacatura di privato, visto come soluzione taumaturgica di tutti i problemi. La presenza pubblica nell’economia… è invece essenziale per il supporto dello sviluppo”.
Ecco finalmente parole che dicono qualcosa sulla “visione” e sulla “missione”, che tentano un’analisi e disegnano compiti per un ipotetico futuro soggetto della politica italiana. Mattoni di una cultura politica.
Già la cultura politica. La chimera di questi anni. Proprio su questo tema, però, il ministro professore ha le idee chiare: “La cultura politica del Pd è prima di tutto una cultura di governo che si riconosce nella soluzione dei problemi e non nella loro rappresentazione identitaria. Il riformismo italiano, del resto, dai tempi di Turati è andato avanti per le lezioni apprese nella prassi di governo. Anche in questi 12 anni la nostra cultura è cresciuta grazie all’azione di governo più che nei centri studi, nelle fondazioni o nei convegni chiamati a rielaborare vecchie culture politiche”.
Innanzitutto prima della “soluzione del problema” c’è l’individuazione del problema, che è compito di analisi eminentemente politico; un compito che difficilmente ci si sforza di compiere dando, erroneamente, i problemi per dati acquisiti. Niente di più falso. La percezione dell’urgenza o della gravità di un problema non è mai un dato, ma un prodotto della cultura. E proprio di questo, il succitato Filippo Turati fu il primo a fare le spese. Avendo negoziato in posizione subalterna accordi politico-sindacali con Giolitti, si ritrovò – paradossalmente, negli anni della crescita economica che proprio a lui si doveva – a perdere l’egemonia sul suo partito. Un partito dilaniato dallo scontro tra diverse culture politiche, riformista e massimalista, che avrebbe aperto poi la strada al protagonismo di Mussolini, con tutto quello che segue. Prendere a modello del riformismo del XXI secolo Filippo Turati sarebbe davvero qualcosa di molto simile a un suicidio politico.