La disciplina della legittima difesa in Italia esiste già e funziona, come avevamo avuto modo di raccontare qui, e raggiunge il limite sopportabile di equilibrio tra i diritti in gioco in una democrazia ordinata. Con la legge di riforma in via di approvazione si afferma che la difesa è sempre legittima, uno slogan vago e pericoloso, perché i limiti alla legittima difesa sono posti dall’ordinamento non solo per evitare di avere tanti piccoli giustizieri armati in giro per le città, ma anche per proteggere i cittadini da se stessi e dalla propria convinzione di essere una riserva civile delle forze di polizia. Dire che la difesa è sempre legittima, e fare una legge che allarga a dismisura il concetto di difesa, non considera minimamente quello che Ferrajoli chiama «il ruolo performativo che il diritto ha nella formazione del senso comune», liberalizzando di fatto l’autodifesa armata.
La legge propone un’equazione contraddittoria: lo Stato distribuisce sicurezza ma assegna ai cittadini l’onere di difendersi in casa, dichiarando in questo modo la propria incapacità di farlo. Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile si fonda sul disarmo dei consociati e sul monopolio pubblico della forza. La nuova legge racconta di un paese ancora lontano da questa trasformazione, in cui ronde e autodifesa vengono considerate un progresso e non un arretramento allarmante. Il meccanismo che questa riforma intende introdurre è, però, disarmante: definire astrattamente se un omicidio è difesa legittima, sottraendo al giudice ogni valutazione sulla proporzione tra minaccia e reazione.
Anche se la legittima difesa è da sempre un tema identitario della Lega, nel contratto di governo si è sancita una convergenza naturale sul populismo giustizialista con il Movimento 5 Stelle, una dottrina che regala popolarità e simboli (niente sconti ai condannati, più sicurezza, empatia con le vittime dei reati) e che rappresenta la manifestazione di una tendenza ormai strutturale della politica a ricorrere a un diritto penale emotivo per conquistare consenso. Non è estranea a questa inclinazione un’altra riforma, ora in discussione in parlamento, con presupposti certamente meno rozzi e un’idea di fondo più comprensibile, ma perfettamente in linea con questa visione della giustizia penale.
La Camera ha avviato la discussione di una proposta di legge per escludere l’applicazione del giudizio abbreviato, e delle sue riduzioni di pena, ai delitti puniti con l’ergastolo. Una proposta analoga era già stata approvata in prima lettura alla Camera nella scorsa legislatura, e la sua ratio sarebbe quella di garantire la certezza della pena per fatti particolarmente gravi. Si giustifica questa necessità sulla base di alcuni casi giudiziari in cui, grazie al giudizio abbreviato, le pene non sarebbero state proporzionate al fatto.
Il giudizio abbreviato è un rito speciale in cui il processo viene deciso sulla base degli atti raccolti nelle indagini del pubblico ministero, che diventano prove piene rinunciando alla sede naturale della loro formazione, il dibattimento. È un giudizio di tipo volontario, su richiesta dell’imputato, e ha natura premiale: se l’imputato viene condannato, si opera una riduzione della pena. La proposta di legge mira a escludere dal giudizio abbreviato, e da questi benefici, i reati più gravi puniti con la pena dell’ergastolo e non è un caso che sia stata sentita come necessaria dopo alcuni casi eclatanti che hanno destato perplessità nell’opinione pubblica per una pena considerata incongrua. Ma ragionare per casi eclatanti, inseguendo pretese punitive che spesso dimenticano la singolarità di ogni processo e la tenuta del sistema, è il modo peggiore per fare politica giudiziaria.
Non esiste alcuna norma processuale che impedisca di condannare all’ergastolo quando un reato lo prevede come pena edittale (unito all’isolamento diurno), neppure nel giudizio abbreviato, e quando questo accade non avviene per un automatismo processuale o per una preclusione, ma per una libera valutazione del giudice che, in quel caso concreto, ha ritenuto di non doverlo applicare.
Le discussioni in aula sono state precedute dall’audizione in commissione di professori universitari, avvocati, magistrati – il corpo vivente del processo penale – che hanno sollevato una serie di rilievi e perplessità sulla legge, sia dal punto di vista della tecnica legislativa che da quello della tenuta costituzionale. Ma è la scelta politica di fondo a essere discutibile. Si vuole scardinare un sistema – quello del giudizio abbreviato – per reagire a casi molto specifici, numericamente ridotti, in nome dell’accettabilità sociale del risultato processuale.
La norma rischia di avere conseguenze pesanti, come sottolineato dai tecnici sentiti in commissione, costringendo le Corti d’Assise a un lavoro straordinario, impedendo una trattazione più ordinata dei maxi-processi di criminalità organizzata e in generale ricacciando in un angolo il principio della funzione rieducativa della pena. Se si vuole la misura concreta dei passi indietro che sono stati fatti basta ricordare che, cinque anni fa, la commissione ministeriale insediata per studiare una riforma del processo penale presentava al ministro della Giustizia una serie di proposte urgenti, tra cui quella di potenziare e incentivare i riti alternativi, a cominciare dal giudizio abbreviato.