Se si pensa alla categoria “artisti inglesi fra Cinquecento e Seicento”, 99 volte su cento si pensa a William Shakespeare (un 1% dirà “Christopher Marlowe”, tanto per fare lo snob). Questi due giganti della letteratura fanno dimenticare ai più che nell’Inghilterra di quegli anni fioriva una produzione musicale di grande livello, seconda solo alla polifonia italiana dei vari Palestrina e Gabrieli. Grazie al sostegno della regina Elisabetta I, ella stessa abile strumentista, musicisti e compositori trovarono un ambiente ideale per sviluppare la loro arte, arrivando anche a occupare prestigiose e influenti posizioni all’interno della corte. Uno degli strumenti più utilizzati in quell’epoca era il liuto, antenato dell’odierna chitarra: undici corde (cinque doppie e una singola, più acuta), cassa a forma di pera e corto manico. Il principale liutista dell’epoca era John Dowland (1563-1626), di probabili origini irlandesi, che ebbe parecchia fortuna lavorando nelle corti reali di Danimarca prima e di Inghilterra poi. Parte importante della sua produzione è costituita dalle canzoni per liuto: una voce solista, solitamente maschile, che cantava testi di argomento amoroso con accompagnamento strumentale. In pratica, la musica pop dell’epoca. Una musica straniante, per il nostro orecchio postmoderno, apparentemente semplice e lineare ma dagli improvvisi cambi di atmosfera, che passa da toni melanconici a ritmi di danza in un battito di ciglia. Succede pochissimo, ma quel poco che succede produce il massimo effetto.
Saltiamo avanti di qualche centinaio di anni e arriviamo ai giorni nostri. Il signor Gordon Sumner, meglio noto come Sting, riceve in regalo da un suo amico chitarrista un liuto. Un gesto apparentemente innocuo, che in realtà scatena nell’ex leader dei Police un interesse ai limiti dell’ossessione. Dopo mesi di studio dello strumento e di analisi di partiture d’epoca, incontra un liutista bosniaco, Edin Karamazov, con cui getterà le basi di Songs from the Labyrinth. L’album, uscito nelle scorse settimane, comprende vari brani per liuto e voce di John Dowland, inframmezzati da passi di una lettera autobiografica dello stesso autore. Il tutto sotto l’ala protettrice della Deutsche Grammophon, l’etichetta principe nel mondo della musica classica.
Rispetto al precedente “Sacred Love”, “Songs from the Labyrinth” è una sterzata di centoottanta gradi. Le sonorità techno, i duetti con navigate pop-star (Mary J. Blige) e i testi leggeri vengono sostituiti da atmosfere misurate ed eleganti e da liriche struggenti. Lacrime, voti che non verranno sciolti, lutti che non verranno placati. Anche nei passaggi meno drammatici (come “Fine Knacks for Ladies”), il tono non è mai completamente gioioso, c’è sempre un certo contegno. La voce di Sting non ammicca quasi mai ai successi solisti o dei Police e convince sia nel timbro che nella resa dell’inglese arcaico. Le pecche, invece, stanno nelle rare sovraincisioni polifoniche, effettuate dallo stesso Sting: più che le raffinate linee vocali cinquecentesche, ricordano i tipici cori in falsetto dei Queen, rovinando almeno parzialmente l’effetto complessivo dell’album. Grazie anche all’abilità di Karamazov nel sostenere le melodie nonostante lo scarso volume di suono a disposizione del liuto, il risultato complessivo è comunque positivo: l’incursione di Sting in un territorio non di sua competenza risulta affascinante e stilisticamente coerente. Al giorno d’oggi, forse, la vera trasgressione è pubblicare un disco di musica rinascimentale.