Quando la Procura di Roma (eravamo ad aprile del 2017) accusò il capitan Scafarto di aver condotto e pasticciato indagini contro piuttosto che su Tiziano Renzi, a noi di una certa età vennero subito in mente il tintinnare di sciabole golpiste del 1965, l’arresto di Francesco Ippolito (che stroncò le prospettive del nucleare in Italia), l’arresto di Baffi e Sarcinelli, i capi della Banca d’Italia, che si opponevano a Sindona (il magistrato si chiamava Alibrandi). Tutte occasioni in cui settori dello Stato hanno usato il loro potere contro altri settori dello Stato, in chiave di lotta partigiana (con la p minuscola). Scontri che esistono da sempre e sempre esisteranno (e di certo molteplici se ne stanno svolgendo in questo esatto istante). La novità degli ultimi anni è che quelle lotte si basano oltre che sulla forza delle armi o sul potere di indagare e giudicare, anche e specialmente sul potere di raccontare. Cioè sui mass media.
L’intreccio fra quelle burocrazie statali e gli operatori dei media è divenuto, a quanto pare, strettissimo. Al punto che Marco Lillo sul Fatto di oggi contesta ai magistrati romani l’aver tenuto in scarso conto una intercettazione del luglio 2015 anche se «al Fatto risulta che i Carabinieri hanno trovato l’incrocio delle celle agganciate dai telefonini di Tiziano Renzi e Alfredo Romeo in quel periodo». L’espressione «al Fatto risulta» sta a dire, se non erriamo, che qualche carabiniere gli ha fatto pervenire dati o carte ottenibili solo dall’interno dell’Arma e non per vie ufficiali. E qui casca l’asino del giornalismo da faldone, quello che le inchieste non le fa ma le rimastica. Affidarsi a “documenti” soffiati dallo spacciatore di turno significa farsi strumentalizzare da una qualche – ce n’è sempre qualcuna in corso – lotta fra fazioni. Esattamente l’opposto del farsi un’idea con mezzi propri, da osservatori esterni (verrebbe da dire da quarto potere).
Certo, condurre inchieste in proprio costa molto e i mass media sono pur sempre imprese che debbono fare i conti col bilancio. Sicché solo quelli grandissimi sono in grado di impegnarvisi (il New York Times e il Washington Post, per quanto giornalmente constatiamo). Gli altri si accontentano di fare da cassa di risonanza di chi ha per davvero le mani in pasta e la sa più lunga di loro. Il risultato è la sceneggiata dell’informazione, con intercettazioni tanto gustose quanto decontestualizzate (a costruire i contesti servirebbero, appunto, le costose inchieste che non si fanno), allusioni, vox populi di sua maestà, e via suggestionando. In fondo scopriamo che il giornalismo da faldone, al di là dei personali patti faustiani di questo o quel dannato redattore, è generato dallo stesso meccanismo economico che ha fatto dilagare i talk show formato extra large. Costa poco. Ma, appunto, come direbbe una genuina voce di popolo: «Costa poco, vale poco». O anche: «Meglio meno, ma meglio».