L’autunno del pugilato

Un signore di cinquant’anni con un passato di grande campione sfida un professionista più giovane di vent’anni e all’apice della carriera venendone sonoramente sconfitto. In nessuno sport al mondo questa sarebbe una notizia. Eppure la sconfitta di Gianfranco Rosi subita sul ring di San Marino ad opera del francese Robert Roselia da sabato scorso rimbalza su ogni telegiornale sportivo ed è la prima tra le notizie di boxe di qualsiasi quotidiano.
Gianfranco Rosi, quarantanove primavere e una caterva di titoli alle spalle, si era ritirato dall’agonismo nel 1997 per dedicarsi all’insegnamento nell’Accademia del pugilato di Perugia. Alcuni anni di inattività, una parentesi al reality “Il Ristorante”, l’impegno come allenatore. Poi il ritorno ai combattimenti e l’occasione di stupire tutti: a quarantanove anni di nuovo sul ring, contro un avversario trentenne, e con quel sogno di riconquistare presto il titolo mondiale.
Risultato: Rosi è finito all’ospedale in prognosi riservata, dove è stato ricoverato al termine di un incontro in cui è stato a lungo dominato dall’avversario prima di finire ko all’undicesima ripresa, annientato da un sinistro che l’ha spedito per alcuni secondi in stato di incoscienza. Per rendere ancora più grottesco il tutto, Gianfranco Rosi ha poi accusato l’avversario di aver messo sui propri guantoni una sostanza che gli avrebbe irritato gli occhi. Vale la pena di ricordare che l’incontro era valevole per il titolo intercontinentale Ibf dei pesi medi; cioè: la boxe di oggi è uno sport nel quale un cinquantenne avrebbe potuto diventare campione intercontinentale di categoria.
Seconda notizia di boxe nei quotidiani: Mike Tyson, quarant’anni e a corto di liquidità, ha appena iniziato il suo World Tour (sic), una serie di esibizioni nelle quali, tra molti improbabili sfidanti, ha dichiarato che combatterà contro una donna.
E ancora: due settimane fa Giovanni Parisi, trentanove anni, olimpionico a Seul nel 1988 e già vincitore di due titoli mondiali da professionista, ha combattuto e perso ai punti contro Frederic Klose, mediocre pugile francese neanche lui tanto ragazzino (trentasei anni). Anche Parisi si era ritirato alcuni anni fa ed era poi ritornato alle competizioni spinto dalla consapevolezza di “poter dare ancora qualcosa al pugilato”.
Questa più o meno è l’immagine che oggi la boxe può offrire di sé al grande pubblico: nostalgici ex campioni e penosi scimmiottamenti del wrestling.
Diciamolo subito: il problema della boxe non sono Rosi e Parisi che non sanno abbandonare l’attività; lasciare l’agonismo, per chi vi ha dedicato la vita, è la prova più dura. Lasciare uno sport come la boxe, poi, che esige dedizione totale e amore sconfinato, deve essere semplicemente drammatico, e di grandissimi campioni che non seppero abbandonare per tempo è piena la storia dello sport. Perfino il più grande di tutti, Mohammed Alì, non seppe resistere al richiamo delle competizioni e dopo essersi ritirato tornò a combattere chiudendo la carriera con due sconfitte e lasciando di sé un ricordo meno fulgido. No, il problema non sono Rosi e Parisi che non si arrendono all’età, il problema è la boxe di oggi che non sa fare a meno di loro. Il problema è l’assurda deriva di uno sport che da decenni non trova talenti e personaggi capaci di catturare pubblico e attenzioni, e che ha preferito disperdere il proprio fascino nel sottobosco delle mille sigle e federazioni internazionali dove all’ipertrofica titolatura dei campioni quasi mai corrisponde un reale valore sportivo. Se gli eventi più seguiti sono le esibizioni di Mike Tyson o gli improbabili ritorni di grandi campioni in decadenza è solo perché tolti loro rimarrebbe il nulla, o quasi.
Vent’anni fa, quando chi scrive era bambino, a riempire le pagine della boxe dei quotidiani erano Tyson, Parisi e Rosi. Che lo siano ancora oggi è forse la testimonianza più eloquente del malinconico declino dell’arte nobile.