Per comprendere fino in fondo la nostra smodata passione per le manette e le pene servirebbe la psicanalisi, e non la filosofia del diritto. La naturale propensione a pretendere per gli altri punizioni esemplari è sempre temperata dalla tolleranza per se stessi, vittime dell’ingiustizia e del destino. La voluttà della punizione è al centro della vita pubblica, e la nostra anima giustiziera ha sempre trovato un modo per mettere in chiaro che noi eravamo il popolo e volevamo giustizia, segnando una linea invalicabile tra noi e loro, tra la parte buona della società e i trasgressori. La passione per la pena esemplare ha avuto fasi diverse nell’età moderna, si è trasformata ma non è mai scomparsa. Taglioni, supplizi, ghigliottine si sono trasfigurati in carcere, monetine o trasmissioni televisive, ma nonostante il progresso dell’avere superato – almeno in Europa – la pretesa di una vita per un’altra, la nostra passione per il castigo si è progressivamente rafforzata.
Didier Fassin, sociologo e antropologo francese, ha cercato in un breve saggio intitolato Punire – Una passione contemporanea (Feltrinelli) di indagare le ragioni di questa passione rispondendo a tre domande: che significa punire? Perché si punisce? Chi viene punito? Il mondo è entrato in un’era del castigo in cui si pretendono punizioni sempre più dure, senza una correlazione con un incremento statistico di criminalità e delinquenza, e la società è diventata meno tollerante verso ogni tipo di deviazione. La politica rafforza – o anticipa – le inquietudini securitarie. Possiamo vedere ogni giorno come l’escalation di intolleranza e vocazione securitaria ci avvicinino al punto di rottura dello stato di diritto.
«Una passione contemporanea». Il titolo del saggio illumina come caratteristica imprescindibile della modernità il desiderio di castigare gli altri – «castigo» è un termine più universale di «pena», che rischia di ridurre il discorso al diritto penale. Il popolo è stato spesso assetato di sangue e ha sempre considerato le pene come un’espressione del proprio diritto di cittadinanza. Le esecuzioni pubbliche erano una manifestazione di potere, ma anche uno spettacolo di notevole gradimento per cui si pagava un biglietto. Il progresso sociale ed economico doveva condurre a un temperamento della volontà punitiva, ma qualcosa è andato storto. Fassin cerca di capire cosa, indagando le ragioni del punire partendo dal suo campo di studi, attraverso ricerche sulle istituzioni addette a distribuire punizioni (polizia, tribunali, carceri) e un’antropologia del castigo costruita tra popolazioni indigene, periferie francesi, Durkheim, Hart e Foucault.
L’idea che chi infrange le regole debba essere punito è naturale in una società, ma la pretesa che le pene siano dure, esemplari, spietate, lascia intravedere un aspetto voluttuario che non ha niente a che fare con le ragioni del punire. Ci sono numerosi studi sul rapporto tra severità delle pene e la dissuasione dal commettere reati, spiega Fassin, che dimostrano come questo effetto deterrente non funzioni. Allora perché insistere in questo desiderio di punizioni sempre più dure, pene sempre più esemplari?
Nelle società occidentali siamo passati da una logica della riparazione – si punisce per ricomporre una frattura sociale, per cui anche la vita umana poteva essere risarcita con il denaro – a quella della punizione, per cui la pena è pena solo se infligge sofferenza e redime il colpevole. Dalla riparazione alla redenzione. Ma questo porta alla seconda domanda: cosa giustifica l’imposizione di questa sofferenza, perché si punisce? E qui le cose si fanno interessanti. Tra retribuzione e utilitarismo della pena, Fassin analizza diversi aspetti della repressione penale per concludere che aveva ragione Nietzsche: punire non è solo rendere un male per un male, c’è qualcosa di più, una soddisfazione nel sapere che il colpevole soffre, è «la voluttà del fare male per il piacere di farlo». È la componente emotiva del castigo, il piacere dell’atto punitivo che si ritrova nei linciaggi nell’America segregazionista, nelle lapidazioni della shari’a, nei pestaggi del vigilantismo sudamericano. Ma è una dimensione del castigo che teniamo nascosta, forse perché ce ne vergogniamo. Il diritto dovrebbe servire a tenere sotto controllo questi impulsi, ma il populismo penale vince su retribuzione e utilitarismo, e cerca di liberare il castigo da ogni regola che lo possa frenare. Così facendo però il castigo eccede la sua ragione.
Ma c’è un altro aspetto patologico del punire: le disuguaglianze sociali nella risposta repressiva, e il fatto che la giustizia operi una repressione selettiva e sia più dura con l’emarginazione, sbilanciata verso alcune parti della società. Fassin indaga le differenze di classe tra i castigati e i castigatori, e questa diseguaglianza si fa sempre più evidente nel clima securitario contemporaneo. Comunque la si pensi, quando il ministro dell’Interno – commentando lo sgombero del Baobab e delle tende dei migranti – rivendica l’eliminazione di «sacche di illegalità», conferma la tesi di Fassin: abbiamo un problema di distribuzione della punizione, per cui passa come buon senso questa costante distruzione di ogni forma di solidarietà e soccorso, mentre ci sono intere zone franche di illegalità in cui, al posto delle ruspe, arrivano i condoni. Ma una società deve interrogarsi sulla possibilità che la propria politica repressiva provochi altra illegalità, altra repressione, in un circolo vizioso senza fine.