In tempi forse più tragici, certo più seri di questi, tintinnavano le sciabole e frusciavano le sottane. A partire dagli anni Novanta, invece, coperti dal rassicurante tintinnio delle manette, a frusciare sono i microfoni e soprattutto le pagine dei giornali. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, persino dinanzi alle vicende che in questi giorni coinvolgono i nostri servizi segreti, mentre veniamo a sapere – e non è nemmeno la prima volta – che il nostro presidente del Consiglio è stato a lungo spiato insieme ai suoi famigliari. L’intera storia d’Italia trabocca di trame più o meno oscure, servizi più o meno deviati, politici e altre personalità pubbliche messe sotto osservazione e sotto ricatto. Attività di dossieraggio e campagne di diffamazione che da sempre hanno nel mondo dell’informazione, come è ovvio, uno degli snodi centrali.
La differenza però è che al tempo della guerra fredda tali attività obbedivano a una logica e rispondevano a una gerarchia – di valori, di priorità e di persone in carne ossa – che godevano ancora, se non altro, di una sia pur labile legittimità democratica, politica e civile. Le cosiddette deviazioni, vere o presunte, trovavano dunque degli anticorpi: si trattasse effettivamente di ufficiali infedeli o di semplici capri espiatori scaricati all’ultimo momento dai loro capi, una volta scoppiato lo scandalo, rimanevano pur sempre forze politiche e istituzioni legittime e solide abbastanza da ristabilire un ordine.
Come spesso accade, però, al venir meno di quelle minacce, con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, sono venuti meno anche gli argini. La novità è tutta qui. In questo il sinistro tintinnio che oggi torniamo a sentire si distingue dai rumori di fondo della Prima Repubblica. E’ il tintinnio degli anni Novanta, quello che oggi risuona dietro il fruscio di registratori e giornali, dietro la rete di spionaggio legale e illegale che avvolge il paese e minaccia quotidianamente di farlo risprofondare nella palude del ’92. E’ un ballo in maschera di cui conosciamo a memoria i passi: le campagne condotte in questo modo in nome dell’etica pubblica dai grandi giornali e dalle grandi procure si legittimano reciprocamente, spianando la strada al commissariamento della politica. La danza si conclude e finalmente qualcuno, contemplando il cumulo di macerie e quasi se ne avvedesse per la prima volta, si alza a invocare l’unico rimedio possibile: il governo dei tecnici. “L’ideale che canta nell’anima di tutti gl’imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie – diceva Benedetto Croce – una sorta d’areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”.
Nulla è dunque più triste della commedia recitata di questi tempi da tanti autorevoli direttori e persino da diversi esponenti politici prontamente accorsi al gran ballo, che offrono allegramente il collo al carnefice mentre volteggiano da un’intervista all’altra. E’ la seconda o terza volta in meno di un mese che si torna a parlare del fatto che l’attuale presidente del Consiglio è stato spiato, nella sua vita privata, nelle sue conversazioni e nel suo conto corrente. Purtroppo, ancora una volta, il capo dell’opposizione ha dimostrato tutta la sua disarmante inadeguatezza politica e morale, parlando di un polverone sollevato ad arte dalla maggioranza per distrarre l’opinione pubblica dalla Finanziaria. Il giorno dopo si è saputo che era spiato anche lui.
Possibile che nessuno, in quello che una volta si sarebbe chiamato “il Palazzo”, avverta il tintinnio che arriva dalle notizie di questi giorni? Sembrerebbe incredibile, eppure è proprio così. E nessuno ha notato che nel frattempo, dopo la breve sosta seguita allo scandalo che ha portato in carcere l’ex responsabile della sicurezza di Telecom Italia, come se nulla fosse accaduto, i giornali hanno già ricominciato a ospitare le consuete pagine di intercettazioni. Colonne intere di affermazioni e insinuazioni di cui non è dato conoscere la fonte, montagne di purissima spazzatura presentate come fatti inoppugnabili. Nomi di politici, personaggi pubblici, dirigenti dei servizi segreti e illustri sconosciuti messi sotto accusa attraverso le loro o le altrui conversazioni private. Conversazioni selezionate, tagliate o riassunte nella piena discrezione del giornalista e del direttore, corredate di titoli allusivi e messaggi più o meno cifrati, fatte strumento di regolamenti di conti dall’indiscutibile sapore mafioso. Sarebbe questa, dunque, la libertà di stampa? Queste sarebbero la trasparenza e la correttezza dell’informazione garantite dalla sacra deontologia dei giornalisti che reclamano il diritto di cronaca persino dinanzi a una simile prassi, ormai ampiamente consolidata?
L’unico modo di porre fine alla spirale di ricatti, veleni e veline che intossica la vita pubblica è fissare regole chiare in merito all’utilizzo di uno strumento (quello delle intercettazioni, ma anche dei “tabulati”) che per gravità ed eccezionalità dovrebbe essere considerato equivalente a una perquisizione domiciliare. Regole che oltre a limitare l’uso delle intercettazioni, ovviamente, dovrebbero porre un argine all’indegno mercato della loro diffusione a mezzo stampa.
La distinzione ipocrita tra intercettazioni illegali, intercettazioni regolarmente disposte ma illegalmente pubblicate e intercettazioni regolarmente disposte e legalmente pubblicate (perché “depositate”, come amano ripetere i direttori di giornale) non è altro che un gioco delle tre carte. Anzitutto perché “depositate” non significa “pubbliche”. Al contrario, fino all’inizio del dibattimento sono (dovrebbero essere) segrete. Ma siccome a quelle carte hanno accesso gli avvocati – i quali evidentemente sono considerati i primi sospettati di passarle ai giornali, affinché questi possano meglio mettere sotto accusa i loro assistiti – per prassi si considera impossibile accertare chi le abbia consegnate alla stampa. Per risolvere il problema basterebbe una legge che dicesse: dato che quelle carte pubbliche non sono e non devono essere, la loro pubblicazione è vietata. E severamente punito il giornale che le pubblichi, indipendentemente da chi gliele abbia passate.
Si potrebbe stabilire inoltre che un giudice, come è stato tante volte proposto, sia chiamato per tempo a decidere, sentite le parti, la distruzione di tutte le registrazioni che non siano essenziali ai fini del processo. E vietare la pubblicazione di qualsiasi intercettazione che non sia stata prima così vagliata, ma vietarla sul serio, prevedendo pene tali da rendere efficace il divieto. Non certo attraverso multe da quattro soldi, che troppi editori potrebbero ben permettersi di pagare, a fronte dei vantaggi loro derivanti dall’utilizzo di un simile strumento nelle battaglie economiche e politiche. Uno spettacolo che abbiamo già visto, in tempi fin troppo recenti.
Nessuna riforma della giustizia – pure indispensabile – sarà mai possibile fino a quando si lascerà in circolazione una simile spazzatura. Quella delle intercettazioni è una pistola puntata alla tempia di tutte le forze politiche, e va immediatamente scaricata. E quei politici che pensassero di salvarsi schierandosi ancora una volta a difesa del carnefice, nel miglior stile anni Novanta, si ricordino che non sempre è vero che “l’uomo che fugge vede l’aurora”. A volte muore con un colpo alla schiena.