Come abbiamo perso la guerra del buon senso

Va bene, le diseguaglianze sono aumentate. Ma c’è una cosa che rimane ripartita in maniera più o meno uguale fra gli uomini, nonostante la fine dei Trenta Gloriosi, la globalizzazione, la rivoluzione neoliberale, la finanziarizzazione dell’economia, la crisi del 2007-2008 e tutto quello che è venuto dopo: il buon senso. Non lo dico io, lo dice René Descartes, in apertura del suo Discorso del metodo. Dice proprio così: «Il buon senso è la cosa del mondo meglio distribuita». E fornisce subito la controprova: «Ciascuno infatti pensa di esserne cosi ben provvisto che perfino quelli che sono più difficili a contentarsi in ogni altra cosa, non sogliono desiderarne più di quanto ne posseggono».

Se in effetti si domanda in giro, ci si accorge che, proprio come diceva Descartes, ciascuno ritiene di avere a disposizione argomenti di buon senso, e semmai non si capacita di come gli altri non se ne facciano convinti. Vale per la formazione da mettere in campo la domenica, come per i più ardui problemi di finanza pubblica. Vale al punto che ormai dal buon senso, per nostra fortuna, siamo governati, almeno secondo il nostro ministro dell’Interno. Che non perde occasione per appellarvisi: quando critica l’Unione europea ma anche quando auspica un accordo con l’Unione europea; quando dichiara che «buon senso è cancellare la legge Fornero» (a febbraio, avendo già manifestato nei mesi passati sotto casa dell’ex ministro: sempre con il solito buon senso, immagino) e quando l’abolizione promessa diventa una «quota 100 light» (quasi una Coca light, a sentirla). Lui, Salvini, al buon senso ha intestato perfino una rivoluzione. L’uso del buon senso prevede la fine della pacchia per i migranti e la legittima difesa sempre e comunque, il ritorno della tradizione (spesso una tradizione da operetta, abbondantemente contraffatta e semplicemente recitata) e, sopra tutto, «valori, principi, coerenza, orgoglio»: gli stessi, peraltro, di Marine Le Pen.

Ora, il problema è tutto qui, che io con tutto questo buon senso non mi ci ritrovo neanche un po’, mentre una buona parte del paese, a quanto pare, ci si ritrova. E, se mi volto indietro, a quando ho cominciato a scrivere su Left Wing (il che per me ha voluto dire: a scrivere per qualcuno in più dei ventiquattro lettori del mio blog antidiluviano) mi accorgo pure che questo benedetto buon senso sarà anche ottimamente distribuito, come diceva Descartes, ma è anche un bel po’ cambiato. Se l’archivio non mi inganna, io ho mandato al Direttore, Francesco Cundari (che Dio lo abbia in gloria), un mio primo pezzo su «Kant per sequestratori»: nientemeno! In mezzo a sottigliezze quasi metafisiche e sofisticate critiche testuali che non vi consiglio di andarvi a rileggere, io provavo a dire che «il nostro mondo è frutto di contaminazioni e ibridazioni e rimescolamenti». Figuriamoci! Il buon senso dice tutt’altro. Dice, per bocca di Salvini: prima gli italiani, e al diavolo le contaminazioni (non ne parliamo poi di ibridazioni e rimescolamenti).

Quindi, non contento, mando il secondo pezzo. Che il Direttore ha l’agio di titolare: «Wojtyla e la razionalità del male». Perché sì, su Left Wing si potevano discutere argomenti seri e impegnativi, anche se spesso venivano conditi con ironia (e autoironia): l’era dell’incompetenza, insomma, non era ancora sbocciata. E comunque, che cosa dicevo in quel pezzo? In modo un po’ contorto (me ne rendo conto solo ora, e mi scuso con il Direttore, sia pure a quindici anni di distanza) che la responsabilità politica è una cosa seria. E che bisogna saperla portare: senza finire in tragedia, ma anche senza far la figura delle anime belle. Ebbene: che dice oggi il buon senso al riguardo? Non so: ho lasciato il ministro Salvini a discutere con un capo ultrà. Né ho troppa voglia di offrirvi il florilegio di dichiarazioni che ha accompagnato la presentazione e ripresentazione della legge di Stabilità, con il concorso paritetico di leghisti e pentastellati. Diciamo allora, come il poeta, che The Times They Are A-Changin’, anche se il cambiamento non sta avendo il verso auspicato.

Però attenzione: non c’è nessuno che non abbia promesso di cambiare, da quindici anni a questa parte (e anche più). A proposito di responsabilità: ciascuno, dunque, si prenda le sue. Però è un fatto: si è sempre governato in nome del cambiamento. E così si continua a fare. Questa è l’unica cosa che, a pensarci, non è affatto cambiata. Ma mentre si inseguiva il cambiamento ai piani alti della politica e delle istituzioni – con una lunga serie di tentativi di riforme costituzionali che non hanno portato da nessuna parte, favorendo solo il continuo smottamento di quel poco di cultura politica sedimentata che ancora sopravviveva nel paese – qualcosa cambiava per davvero. E cosa? Non sarà forse il buon senso e la sua equa, cartesiana ripartizione, ma è senz’altro il senso comune.

Qui sta infatti la fregatura: che il buon senso di Descartes era legato alla «capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso». Ma il senso comune, quello è un’altra cosa, e di questa capacità di ben giudicare e ben distinguere non sempre reca traccia. In ogni caso, sono le cose fattesi di senso comune, che non sono più le stesse. Ora, non dico che fossero di senso comune, quindici anni fa, la Critica della ragione pura e la razionalità del male: non pretendo questo. Dico, più semplicemente, che a livello di senso comune, di quella filosofia non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva, di quella «impressione generale» spontanea di cui parlava Gramsci, qualcosa è successo. Qualcosa, che permette di circolare a parole, concetti, dottrine che quindici anni fa avremmo forse considerato fuori corso. Non c’è bisogno che esemplifichi troppo, ma: Europa, immigrazione, sicurezza, Mezzogiorno, lavoro, diritti. Se si mettono gli uni a fianco degli altri i discorsi che si facevano allora e quelli che si fanno oggi, ci si rende subito conto che gli italiani parlano con un’altra grammatica e un altro dizionario. Col che non me la prendo certo con i tempi che cambiano, come se si trattasse di nuvola o pioggia. Forse non sarà neanche tutta e solo colpa mia, che facevo le bucce a Francesco Merlo o al cardinale Ratzinger, ma visto che ho citato Gramsci: qualche responsabilità bisogna che le abbia quella parte della classe dirigente del paese che non si accorgeva – mentre progettava le necessarie, indispensabili riforme – che il popolo se ne andava da un’altra parte, e veniva conquistato da altre parole d’ordine.

Insomma: non una storia di successo. E attenzione: dico proprio la storia intellettuale, dico lo strappo che si è prodotto fra modernizzazione e cittadinanza politica e sociale, e dico pure i contraccolpi che subiamo ora, in conseguenza di quello strappo. Per cui abbiamo impoverito le condizioni della cittadinanza, e rischiamo pure di perdere il vento della modernità. Per finire, non so con quanto godimento, alle espressioni di puro buon senso di Salvini.

(E i Cinquestelle? Mah, ne riparliamo fra quindici anni, e vedremo, come direbbe Fassino, dove stanno).