Marco Damilano, nel suo “Il partito di Dio” (Einaudi 2006) compie una ricognizione della situazione attuale della Chiesa italiana attingendo ai canoni dell’analisi politica. Il libro è infatti un reportage giornalistico di fine mestiere sulla “nuova galassia dei cattolici italiani”. In realtà la crosta sottile del confezionamento professionale fa trapelare di frequente l’appassionata militanza dell’autore, dalla parte dei cattolici democratici, nella lunga battaglia politica che ha attraversato tre decenni di vita della Chiesa italiana.
E’ stata la battaglia che ha visto il progressivo ridimensionamento del fronte conciliare “Montiniano” ad opera di un primate tenace e combattivo come il Cardinale Camillo Ruini.
Il libro ha infatti un indiscusso protagonista nella persona del Cardinal Vicario e costituisce anche un bilancio della sua lunga leadership, giunta l’ora del suo prossimo pensionamento.
Dopo un primo capitolo in cui si focalizzano i caratteri degli ultimi, più accesi anni del conflitto in nome dei valori tradizionali, iniziato nel 2000 contro il relativismo di sinistra, negli altri capitoli si esaminano nell’ordine: il profilo biografico di Ruini, la sua squadra, la costellazione dei movimenti carismatici e la parabola dell’Azione cattolica, il nuovo sistema mediatico della Cei, gli alleati più sorprendenti tra neoconservatori e integralisti cattolici, il modo in cui la Cei valuta i protagonisti della politica, le prospettive che si aprono per il dopo Ruini.
Il libro attraversa una lunga traiettoria storica che inizia con la lenta separazione dalla tradizione conciliare avviatasi negli anni settanta (di cui fu catalizzatrice la sconfitta dei candidati italiani al Conclave del 1978), attraversa la fase del sostegno sempre più marcato da parte di settori della Chiesa alla rivoluzione conservatrice degli anni ottanta –sono gli anni che hanno visto protagonista Comunione e liberazione, il passaggio dalla Ost politik del Cardinal Casaroli al confronto duro con il mondo comunista, specie dopo i fatti di Polonia, lo slittamento dell’interpretazione della dottrina sociale della chiesa da una visione basata su economia mista e stato sociale ad una declinazione dissacrante della sussidiarietà in termini di “meno stato più mercato”.
Sul piano del posizionamento politico quindi è il periodo in cui si assiste ad una Chiesa che, Ruini in testa, prima si arrocca a difesa dell’unità politica dei cattolici, opponendo un muro alle evidenti inquietudini diffuse nel cattolicesimo di base, insoddisfatto della politica democristiana negli anni del “preambolo” e sempre più tentato, dopo l’89, da una nuova alleanza con la sinistra postcomunista. Quindi, agli albori del precario bipolarismo degli anni novanta, la Chiesa che si fa protagonista politico in prima persona, l’arbitro del confronto bipolare che mette alla prova gli schieramenti sui temi da lei indicati: finanziamenti alle scuole private, tutela della vita sin dal concepimento, e della famiglia fondata sul matrimonio. Infine, dopo la ventata ulivista che negli anni ’95-98 aveva portato gran parte del mondo cattolico a sostenere il centro-sinistra – ben oltre la volontà delle gerarchie – l’ultima fase è quella della guerra di movimento sui valori non negoziabili, concomitante con la definitiva affermazione della personalità di Joseph Ratzinger come stella polare dell’ultima fase del pontificato woytiliano. E’ la stagione che Damilano situa a cavallo di due eventi incandescenti sul piano simbolico: la reazione al Gay pride romano durante il Giubileo del 2000 e la vittoria di “Scienza e vita” ai referendum sulla fecondazione assistita del 2005.
Nel bilancio del ventennio ruiniano e nel tentativo di scrutare il futuro che attende il cattolicesimo italiano, dopo Ruini e nel pieno sviluppo del pontificato di Benedetto XVI, l’autore non riesce a nascondere, pur nell’avversione politica, una stupita ammirazione per la potenza organizzativa e per la forza politica dispiegata da Ruini nell’opera di trasformazione del corpo vivo della Chiesa nazionale.
Il giudizio fondamentale è però scettico e negativo. Damilano ritiene che la Chiesa, che oggi si mostra trionfante, “rischia di allontanarsi dalla vita quotidiana di milioni di cattolici che si trovano ogni giorno a fare i conti con se stessi, con la propria coscienza, con le scelte da compiere”, una Chiesa che appare sicura del proprio ritrovato dogmatismo, ma si distacca da quella “vita comune dei credenti… quelli che soffrono, sperano, pregano, abitano le contraddizioni e la fragilità della condizione umana” una vita in cui “i principi non negoziabili sono negoziati, tutti i giorni”.
Il libro quindi si conclude commentando un celebre brano tratto dalle “Esperienze pastorali”, in cui Don Milani lamenta la condizione di una Chiesa – all’apice della sua influenza politica, sul finire degli anni ’50 – “derisa dai poveri, odiata dai più deboli, amata dai più forti”; l’autore si lascia andare qui a parole molto ispirate e importanti, che quasi stridono col tono ironico e distaccato prevalente nella narrazione: “… e la sfida per la Chiesa resta sempre la stessa, da due millenni: conservare il nucleo della fede, far parlare Dio non dalle antenne o dagli scranni parlamentari, ma nel cuore degli uomini e delle donne, dei cristiani anonimi e casuali. Quel Dio che non abita le cittadelle del potere. Il Dio fragile che non è nelle tempeste, il Dio che è un mormorio di vento leggero, una brezza tiepida, un soffio sull’erba….”. Bello. Così come è bello il salmo di chiusura: “mille anni ai tuoi occhi sono come un giorno, ed è già passato”.
Resta tuttavia un interrogativo storico cui a mio giudizio il cattolicesimo democratico deve azzardare una risposta.
Quell’altissimo tentativo di compenetrare fede, modernità e democrazia compiuto dal Concilio Vaticano II ad un tratto, entrati negli anni settanta – al termine dell’epoca d’oro in cui, dopo la vittoria sul fascismo, la cultura dell’occidente cristiano sembrava poter unire il mondo con sviluppo economico, democrazia, libertà e dialogo – è entrato in crisi. La libertà ha smarrito il valore della vita, la persona si è fatta individuo chiuso in una sfera egoista di interessi e valori, la democrazia è stata banalizzata, il dialogo si è mutato in conflitto. Tutto questo è avvenuto sull’onda di una rottura politica, la fine di quella grande coalizione di nazioni che avevano vinto la Seconda guerra mondiale mettendo i lavoratori, le persone semplici al centro della politica e dello stato e gettando le basi di un governo pacifico e razionale del mondo.
In questo contesto si può capire come la Chiesa, a tutti i livelli, si sia divisa tra le correnti che individuavano la sopravvivenza del cristianesimo nel richiamo ad un tradizionalismo dogmatico e nell’alleanza con un Occidente che, in questa transizione, è tornato a pensare se stesso come una fra le altre civiltà del mondo – la più potente economicamente e militarmente – in conflitto per la difesa della propria primazia, e altri settori del cattolicesimo che hanno vissuto questo cambiamento con un sentimento di sconfitta, la perdita di un livello di civilizzazione del mondo e di conciliazione e integrazione tra fede, pace, benessere, libertà e democrazia che, negli anni sessanta, sembrava acquisito per sempre.
Quella fase però è giunta ad un tornante e tanto più l’Europa imparerà a definire se stessa come un entità culturale, economica e politica unitaria, tanto più cambierà lo scenario del mondo e sarà messa in crisi quell’idea guerriera di occidente che sembra oggi essere egemone.
Il pontificato di Papa Ratzinger, che pure giunge sull’onda di quella mutazione, non sembra rappresentare solo la fase culminante di una Chiesa orgogliosamente dogmatica, ma appare come un ponte tra quella forma primaria di sopravvivenza ad una secolarizzazione senza regole e senza politica e l’esigenza di concorrere a costruire l’edificio europeo dandosi il compito di reimpiantare la fede cristiana, quella possibile, nel cuore e nelle menti dei cittadini dell’Unione, la sfida antropologica di un nuovo umanesimo cristiano. Forse è giunto il momento, anche nella Chiesa italiana, di ripensare i contrasti dei decenni passati e di rinnovare le linee dell’impegno politico dei cattolici, ovunque collocati, perché, chiunque sarà il successore di Ruini, al di là delle intenzioni con cui sarà compiuta la designazione, tempi nuovi non possono che iniziare e l’eredità del Concilio, da riferimento rituale, tornerà ad essere il giacimento più ricco tra quelli necessari agli inevitabili ripensamenti.