Domenica scorsa, “corroborato da una decisione forte, quella sulle 2.500 nuove licenze per i taxi”, Walter Veltroni ha lanciato su Repubblica il suo appello a una “riscrittura condivisa delle regole del gioco”. Una nuova bicamerale, in poche parole, che si potrebbe tradurre oggi in una “Commissione costituente” o in “commissioni parlamentari che approvano una nuova legge elettorale sul modello dei sindaci”. Il senso della proposta è chiaro e non c’è bisogno di girarci intorno: commissariare il governo Prodi, cambiare la legge elettorale e tornare al voto. Inutile aggiungere che a quel punto non sarebbe certo Prodi il candidato del centrosinistra, e chi sarebbe l’aspirante “sindaco d’Italia” che prenderebbe il suo posto.
L’intervista domenicale a Repubblica è in fondo l’ultimo girotondo di Veltroni. Dopo avere guidato la sinistra ds contro Fassino, D’Alema e la maggioranza riformista del partito (ricordiamo ai cronisti distratti che il famigerato correntone fu chiamato così dall’unione, al congresso di Pesaro, tra veltroniani e sinistra interna); dopo avere messo Furio Colombo alla guida dell’Unità e Pietro Folena alla guida del partito; dopo avere alimentato in tutti i modi la stagione più buia della guerra civile antiriformista – quella di chi gridava che sedersi al tavolo delle riforme con Berlusconi era stato un tradimento e un’infamia – dopo avere fatto tutto questo, Walter Veltroni scopre ora la necessità di una “riscrittura condivisa delle regole del gioco”.
Tutto il resto, poi, sono purissimi anni Novanta: il Partito democratico che così non va, naturalmente, perché per Veltroni già nel ’96 il Partito democratico era “il partito dell’Ulivo, che poteva raggruppare il Pds, il Ppi, Rinnovamento italiano, i Verdi, lo Sdi”. E poi “la parola socialismo che va ripensata” perché “nonviolenza, femminismo, ambientalismo non sono mica nati in seno alla cultura socialista”. E poi, ancora e sempre, il modello del partito democratico americano.
Qui sta dunque la vera sfida culturale che il sindaco di Roma lancia al governo Prodi, ai Ds e alla Margherita. E il bello è che a leggere i primi organigrammi usciti sui giornali, a proposito della nuova rivista e del comitato di saggi che dovrebbero animare la costruzione del Partito democratico, si direbbe che abbia già vinto. Ma la Festa del cinema è finita. E dubitiamo che i tanto esecrati partiti accetteranno di farsi sciogliere in mille piccoli fan club di questo o quel leader carismatico, lasciando che siano altre organizzazioni – assai meno trasparenti, e prive di qualsiasi vincolo democratico – a decidere chi dovrà guidarli. Non è liberalizzando le licenze del nuovo partito, affinché ognuno possa costituire autonomamente il proprio piccolo circolo del golf, che si chiuderà la difficile transizione iniziata negli anni Novanta. La stucchevole diatriba tra nostalgici della Prima Repubblica e fautori del nuovo che avanza, tra utili idioti e inutili intellettuali, appartiene a un’altra stagione. E i primi a rendersene conto dovrebbero essere proprio dirigenti e militanti della sinistra ds, chiamati ora e finalmente a scegliere tra il Partito democratico delineato nel convegno di Orvieto e quel partito (invero assai poco democratico) che sembra appena uscito dall’ennesima replica di Happy Days.