Noi non condividiamo la generale convinzione che l’alleanza tra l’Unione di centrosinistra e i radicali sia definitivamente tramontata. Innanzi tutto perché non vogliamo credere che l’Ulivo – l’Ulivo, ripetiamo, prima ancora che l’Unione – si sia trasformato davvero in quello stagno inospitale in cui sguazzano persone ebbre e inconsapevoli, come l’abbiamo rappresentato in copertina (a mo’ di rito apotropaico). Noi non vogliamo rassegnarci a credere che davvero nell’Ulivo sia prevalsa l’ostilità a un’alleanza che avrebbe certamente aumentato – e aumentato di molto – le probabilità di vittoria dell’intera coalizione. In Lazio e Piemonte prima di tutto, cioè nelle due principali trincee di quella “linea Maginot” del centrodestra di cui tanto hanno scritto e discettato i giornali. La vittoria era a portata di mano ed è stata buttata via per timore di irritare il Vaticano, perdere voti cattolici, allontanare da sé il sostegno di boy scout e cardinali? Una tale insensatezza non la vogliamo neppure prendere in considerazione, se non per osservare che in tal caso il centrosinistra avrebbe forse quel che si è meritato, scegliendo ancora una volta la strada burocratica e politicista invece della via politica, ben più larga e diretta. Scegliendo di accantonare il tema dei referendum e della libertà di ricerca, dei diritti civili e della modernità, privilegiando invece l’accordo quasi sottobanco, non si capisce su quali basi e in nome di cosa. E arrivando non a caso all’illuminante paradosso di porre come condizione di un accordo la cancellazione del nome e l’oblio della battaglia politica principale che caratterizza la forza politica con cui ci si dovrebbe alleare. Possibile?
Noi crediamo di no. Ma quale che sia l’esito della vicenda, è evidente la crisi dell’Ulivo, di quella federazione riformista continuamente ostaggio delle sue minoranze, siano massimaliste o clericali, dalla guerra alla fecondazione assistita. Il problema è chiaramente strutturale e strutturale in senso stretto. Nel senso cioè che riguarda la struttura della federazione, concepita come qualcosa di più di un’alleanza e qualcosa di meno di un partito, che si risolve in un’alleanza soffocante e in un partito anarchico. Finché rimarrà questa struttura, finché esisteranno i Ds e la Margherita, uniti però nell’Ulivo, sarà molto difficile concludere accordi di “ospitalità” con chicchessia, per la semplice ragione che ognuno di essi – Ds e Margherita – è già ospite in casa sua. Dinanzi a ogni decisione sulla guerra e la pace, sarà il popolo della sinistra a tirare per la giacca i Ds, spingendo la Federazione su posizioni intransigenti; ma quando sarà il turno del referendum e della laicità toccherà alle parrocchie e alle gerarchie vaticane afferrare la Margherita, trascinando l’Ulivo in direzione opposta. Finché Ds e Margherita non troveranno il coraggio di fondersi in un unico partito, difficilmente lo spettacolo dei prossimi mesi potrà mutare sensibilmente. Non era questa la funzione immaginata per quello che avrebbe dovuto essere il baricentro, il timone, il centro motore dell’intera coalizione.
La diagnosi è presto fatta: il baricentro non tiene l’equilibrio, che oscilla dalla sinistra massimalista alla destra tradizionalista; il timone non tiene la rotta, che avrebbe dovuto essere riformista (cioè tutto tranne massimalista e tradizionalista); il centro motore si è drammaticamente impantanato in quello stagno che abbiamo rappresentato in copertina. Ancora una volta al centrosinistra si offrono due soluzioni: la soluzione politica, la più limpida e netta, con un dibattito aperto per affermare il valore di una battaglia per i diritti e la libertà; oppure la via politicista e burocratica dell’accordo regione per regione, più o meno sottobanco e senza alcuna base concreta salvo la reciproca convenienza. Ci va bene anche la seconda soluzione (in fondo è un errore che abbiamo fatto tante volte e non è il caso di mettersi a fare i pignoli proprio adesso, in piena campagna elettorale).