Come si elabora oggi una proposta di politica economica e industriale all’altezza del compito di far crescere l’economia e distribuire equamente i frutti della crescita? Del compito cioè di coniugare sviluppo e solidarietà sociale nel nostro paese? Attorno a questa domanda dovrebbe svilupparsi un dibattito serio tra le file dei progressisti. Si assiste invece a un dibattito contorto e perplesso, perché c’è chi pensa davvero che la manovra del governo italiano contenga effetti redistributivi che vanno nella giusta direzione, con la conseguenza che la timida contrarietà si concentra sulle modalità o sulle soluzioni attuative. Come a dire: noi abbiamo sbagliato a non farlo ma voi non siete capaci di farlo bene.
In Italia i fattori che pesano maggiormente sulla condizione economica generale del paese, caratterizzata da stagnazione e bassa crescita rispetto alle altre grandi economie europee, si devono ricondurre anzitutto alla scarsa produttività e competitività del sistema pubblico (spesa pubblica, tasse e burocrazia inefficienti, evasione ed elusione), del lavoro (basso tasso di qualificazione) e delle imprese (l’insufficiente propensione agli investimenti), delle infrastrutture (materiali e non) e del sistema formativo. Il gap da recuperare è soprattutto quello dell’arretratezza, della lentezza, dell’insufficiente innovazione. In tutti i settori economici, con poche eccezioni. Nessuno può negare questo dato, che trova conforto in tutte le statistiche da circa venticinque anni.
Si danno dunque le condizioni per una massiccia iniezione di investimenti utili a ridurre il differenziale e rimettere il paese in condizione di competere con le economie concorrenti. In questa prospettiva, sarebbe ben posta la questione della riduzione dei vincoli di bilancio, che fino ad ora è stata concessa in misura insufficiente e subordinata a processi di riforma travolti dal malcontento della crisi del 2008, venuta a esplodere in coincidenza con la torsione rigorista delle cosiddette élite economiche dell’Europa, che in Grecia hanno dato pessima prova di sé. Ma naturalmente questo proposito dovrebbe intendersi come esclusivamente riferibile alle spese da investimenti, visto che l’incremento della spesa corrente senza coordinate compensazioni sul versante delle entrate comporta incremento del deficit e quindi perdita di valore del debito pubblico, e dunque aumento dei tassi (con perdite rilevanti come quelle già in atto su spread e tassi di interesse sul credito) che vanno a gravare sulle famiglie e non certo sui volatili capitali finanziari.
Dentro questo gigantesco problema se ne annida un altro: le differenze enormi tra aree del paese, tra nord e sud, questione che ristagna da decenni senza alcuna adeguata reazione, nemmeno più come tema ricorrente nel dibattito nazionale. Di fronte a tutto ciò, è senza giustificazione che non si riesca a mettere in campo, con la necessaria nitidezza, asprezza e severità, un giudizio critico omogeneo sul contenuto delle misure economiche varate dal governo. A partire dalla misura più significativa, quella del reddito di cittadinanza, senza dimenticare l’avversione verso le infrastrutture, grandi (tav) e piccole (inceneritori), e l’abbandono di qualsiasi proposito di ammodernamento dello stato che non sia quello di delegittimare la democrazia rappresentativa per favorire meccanismi deleteri di democrazia diretta ispirati alla demagogia del “not in my back yard”.
Sul reddito di cittadinanza sono sufficienti poche considerazioni di fondo. Le difficoltà economiche delle famiglie hanno un campo di misurazione agevole: casa, scuola, salute, occupazione. Si tratta di indici in larga misura condizionati dalle decisioni dei pubblici poteri e dall’articolata organizzazione territoriale dello stato e delle autonomie locali, nonché dall’ambiente fiscale e infrastrutturale più o meno favorevole alla crescita delle imprese. In tutti questi settori si sono misurate politiche pubbliche più o meno efficienti (si pensi alle infrastrutture al nord, agli incentivi di Impresa 4.0), spesso capaci di mostrare, anche con il coinvolgimento di capitali in partenariato pubblico-privato, una notevole efficacia sia in termini di riduzione della spesa sia in termini di crescita di efficienza e di spinta all’occupazione stabile.
L’assurdo spreco di risorse affidato al gigantesco – e di per sé inattuabile – modello del reddito di cittadinanza (con le sue pretese di meccanismi anti elusivi e di discriminazione circa l’uso del denaro donato) ha il medesimo significato, a parti rovesciate, dei tagli lineari nella spending review: non distingue, azzera le differenze di merito e di efficienza, distribuisce a pioggia senza che si abbia un solo rivolo di quel denaro utilmente impiegato nella giusta e sacrosanta esigenza di combattere davvero le diseguaglianze di opportunità e di vita. Son sempre denari che vanno nelle tasche di chi ha meno, obiettano da sinistra; ma son denari presi da coloro che lavorano e pagano le tasse, dunque quello che va dimostrato è che essi servano a contrastare le diseguaglianze in modo strutturale e non clientelare, cioè creando vera redistribuzione di ricchezza. Qui sta un punto cruciale che da sempre caratterizza la visione di sinistra (socialdemocratica) sul ruolo dello stato in economia: agire sui beni pubblici, soddisfare i bisogni, organizzare l’uguaglianza fornendo a tutti i beni primari, indifferentemente rispetto al reddito, e ponendo le condizioni perché l’impresa privata si sviluppi creando lavoro.
Ecco cosa non fa, per principio ispiratore, il reddito di cittadinanza: non riduce lo scarto che divide in Italia chi, da un lato, può accedere a una casa a basso costo, godere di buone cure sanitarie e frequentare buone scuole capaci di immetterti in un mondo del lavoro in continua evoluzione, in un ambiente in cui c’è offerta di lavoro grazie alla presenza di imprese, e chi, dall’altro lato, da tutto questo è escluso. Quindi è una misura che non serve al contrasto alla disuguaglianza, se esso lo si intende in termini corretti, cioè nei termini sanciti dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, e dunque come tutto ciò che contribuisce a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
Sulle infrastrutture di mobilità, si mostra un volto conservatore e regressivo evidente: quello di chi mette in contrapposizione salvaguardia del territorio e reti di collegamento con relativi nodi di interscambio, che significano apertura, movimento e mescolamento di persone e merci, e quindi trasfusione e mix di lingue, culture, tradizioni, stili di vita. Non sono ancora riuscito a darmi pace circa il fatto che nessuno rovesci il tavolo di fronte a chi si trincera dietro gli esiti di una presunta analisi costi/benefici, rimanendo in fiduciosa attesa di conoscerne gli esiti. Ma anche a voler aderire a questa demenziale deriva pseudotecnocratica della politica degli investimenti pubblici, come si può eliminare dal raffronto costi/benefici la voce delle implicazioni di sviluppo territoriale, delle filiere produttive, dell’aumento del lavoro, dell’impiego di tecnologie, dell’efficiacia delle misure di compensazione ambientale, dell’abbattimento dei costi e dei tempi di spostamento lungo corridoi di mobilità che interessano milioni di persone e miliardi di merci negli anni a venire? L’analisi costi/benefici dovrebbe seguire un dibattito, tutto politico, sul tema del confronto tra tutela dell’ambiente ed esigenze di sviluppo, mentre questa vicenda delle decisioni sulla Tav ci sottrae anche soltanto la conoscenza e tracciabilità dei processi decisionali affidati a tecnici scelti arbitrariamente dal ministro in carica, senza nessuna pubblica selezione politica e nemmeno professionale degna di questo nome.
Ho scelto due temi sui quali non poche sono le infiltrazioni demagogiche nel campo della sinistra. Ma, come si può notare senza affaticarsi troppo, se si usano attrezzi culturali originali e non presi a prestito, si scopre che proprio invocando le nostre cifre culturali più classiche – politiche pubbliche, scuola, casa, sanità, infrastrutture e ambiente, innovazione sociale e culturale, lavoro e mobilità sociale, politiche industriali, equilibrio tra sviluppo e risorse naturali – possiamo entrare nel merito delle risposte alla domanda di giustizia sociale senza alcun bisogno di affidarci alle sirene del sovranismo assistenziale, che pare purtroppo fare breccia tra le coscienze più fragili del campo progressista.