People, Prima le persone, è una manifestazione che sabato ha portato in piazza decine di migliaia di persone a Milano per chiedere la fine della discriminazione di stranieri e immigrati e della divisione dei cittadini tra chi ha diritti e chi non ne ha per decreto legge. Per fare un paragone poco più di un anno fa erano i giorni della sparatoria di Macerata, un momento in cui una simile manifestazione sarebbe stata, come in effetti è stata, del tutto inimmaginabile. C’è in giro per l’Italia qualche segnale, timido e in cerca di aiuto, di ribaltamento della retorica governativa sull’immigrazione. E non solo, grazie al cielo (e grazie a quel milione e mezzo di elettori che domenica hanno votato alle primarie del Pd). Uno di questi segnali, in teatro da ottobre, è L’abisso, l’ultimo spettacolo teatrale di Davide Enia, che è la versione teatrale del suo ultimo libro, Appunti per un naufragio, ora uscito anche in America ed elogiato una settimana fa dal New York Times.
Davide, attore e scrittore siciliano e narratore, decide di partire per Lampedusa, isola di cui ha solo ricordi vacanzieri di gioventù. Il viaggio, in compagnia del taciturno padre che in pensione ha scoperto l’hobby della fotografia, è una ricerca sul naufragio nel canale di Sicilia del 3 ottobre 2013, costato almeno 368 morti. L’attore siciliano, tornando più volte sull’isola, scopre, e noi scopriamo attraverso lui, di sapere ben poco dei migranti che attraversano il canale. Non sappiamo quasi mai con precisione da dove vengono quelli che si imbarcano, da quali stati, regioni, città. Non sappiamo perché da quei luoghi si scappa. Non sappiamo quali paesi sono insanguinati da una guerra civile né in quali l’etnia o la religione sbagliata, talvolta perfino il genere o l’orientamento sessuale, possono costare la vita. Non sappiamo niente di tutti i paesi in cui, anche in assenza di minacce impellenti, non c’è alcuna possibilità di avere una vita decente per chi non fa parte delle classi dominanti. Non sappiamo che quelli che consideriamo poveri sbandati conoscono invece benissimo i pericoli a cui vanno incontro. Che sanno chi c’è in altre imbarcazioni e che la prima cosa che fanno appena sbarcati è chiedere di quelli che sono partiti con loro. Che sanno cosa li aspetta in Libia. Che sanno come funziona il regolamento di Dublino. Non sappiamo quanti siano veramente quelli che non ce l’hanno fatta, quante le barche non arrivate, quante quelle nemmeno viste partire. E quanto sia facile perdere la vita in mare, non visti o mancati per pochi istanti dai sommozzatori specializzati, ribaltati a pochi metri dalla spiaggia, ingannati da un approdo che appare facile. Non sappiamo quanto lavoro, medico, logistico, culturale di quelli che salvano vite in mare sia svolto da volontari o da ong, da persone e organizzazioni che non costano praticamente nulla allo stato.
L’attore siciliano e il suo racconto corale finiscono per essere contrapposti a un tempo incredibile in cui siamo circondati da analisti di politica estera che conoscono ogni conflitto, da esperti militari in grado di valutare l’efficienza delle flotte delle milizie che chiamiamo “guardia costiera libica”, da studiosi di flussi monetari che collegano le ong ai trafficanti di uomini. Tutte qualifiche che, ancor più incredibilmente, si assommano nel nostro perennemente affamato ministro dell’Interno. Capiamo allora che fuori dal teatro c’è invece un uragano d’odio, che va avanti da anni, in cui si può dire che se una barca affonda un po’ se l’è cercata e in cui si possono chiamare pirati o tassisti del mare i volontari che cercano di salvare i salvabili. Capiamo che opporsi a chi si fa vanto, nonché hashtag, del tenere in mare a piacimento torturati e perseguitati è, anche, una battaglia di parole.