Sarà anche un modello storiografico ottocentesco, ma in questa fase politica è difficile abbandonare l’idea che la storia d’Italia sia la storia delle sue città. La complessità e le differenze del paese si leggono meglio guardando ai tanti modi diversi di vivere le responsabilità, i diritti e i doveri della vita civile. Modi che hanno radici lontane, nella storia particolare di ogni nostra città. L’intensità della passione partecipativa alle questioni urbane, alle politiche più che alla politica, è però un tratto che le accumuna. Saskia Sassen dice che «la città è uno dei pochi posti in cui chi non ha il potere può fare la storia». Perché le città sono lo spazio dei molti, dell’abitudine alle diversità, della cultura che è apertura e tolleranza. Tante metropoli diventano attori politici importanti anche solo perché movimenti di attivisti fanno rete tra città. Realtà nate territoriali come Occupy Wall Street o l’11M spagnolo parlano di istanze fondamentali e universali quali il diritto alla casa e le politiche del lavoro.
In questa interpretazione attiva della democrazia si guarda al sindaco come alla figura tangibile e interpellabile, come a colui che influisce sulla qualità della nostra vita molto più di qualsiasi altra carica istituzionale. L’oggi di Roma, Milano o Napoli, nel bene o nel male, si sta ancora scrivendo ma, con la lucidità che lo sguardo al passato permette, i nomi di La Pira, Argan e Petroselli, Aniasi, Novelli e Bassolino, sono legati a rivoluzioni civili, a cambiamenti di comportamenti e speranze che solo successivamente il nostro paese ha assorbito. Ripensando a quelle esperienze, come a quelle internazionali, è evidente una condizione ineludibile: il cambiamento si conquista quando visione ed efficienza operativa si estendono dal centro alla periferia, quando rivitalizzazione dello spazio pubblico e intensità sociale ridistribuiscono qualità e opportunità, allargando ai più deboli la possibilità di partecipare e far uso del bene comune.
Anche lontano da noi, sindaci illuminati hanno legato il loro nome a cambiamenti epocali delle loro città. Uno dei casi più eclatanti è quello della città di Medellín, Colombia, entrata nell’immaginario collettivo come la città dei Narcos, di Pablo Escobar, per anni epicentro del traffico mondiale di cocaina. Seconda città della Colombia con due milioni e mezzo di abitanti, situata nella Cordillera Centrale delle Ande, al centro della regione di Antioquia, vessata per decenni dalla guerriglia delle Farc, la cui violenza ha provocato l’inurbamento selvaggio dall’entroterra di centinaia di migliaia di contadini e l’autocostruzione di infinite favelas sulle alture intorno alla città. Tra il 1990 e il 2000 nelle strade di Medellín sono state assassinate quasi 50 mila persone. Nel 1991 era la città con l’indice di omicidi più alto del mondo. Al contempo l’indice di estrema povertà era del 19,4% sul totale degli abitanti della città, quasi 20 abitanti su 100 vivevano al di sotto della soglia di sussistenza.
Aníbal Gaviria Correa è stato eletto sindaco della città nel 2012 dal Partido liberal colombiano. Nel 2015, al termine del suo mandato, Medellín è uscita dal ranking delle città più violente del mondo e 25 mila famiglie sono uscite dallo stato di povertà estrema (l’indice è sceso al 2,8%). Certamente Gaviria ha continuato il lavoro di alcuni suoi predecessori, ma ha dimostrato di possedere una determinazione radicale nella progettazione e nella realizzazione di estese infrastrutture che riscattassero le favelas dal destino di isolamento e degrado.
L’intervento più noto è quello delle Uva (Unidades de Vida Articulada), divulgato internazionalmente da Alejandro Aravena attraverso la Biennale di Architettura di Venezia che l’architetto cileno ha diretto nel 2016. Il progetto ha avuto origine durante un intervento di sviluppo di un piano di illuminazione urbana di Epm (Empresas Publicas de Medellín). Quando i tecnici hanno esaminato le immagini satellitari delle luci notturne in città hanno notato vere e proprie isole d’oscurità, buchi neri molto evidenti, localizzati soprattutto nei quartieri più periferici. Si trattava dei 144 serbatoi d’acqua costruiti nel corso del secolo scorso, recintati e inaccessibili. Lungo quei muri e quelle reti si erano però negli anni radicate sacche di violenza e insicurezza in quartieri già privi di spazi pubblici e dei servizi più elementari. Il Comune di Medellín, con Epm e il contributo di aziende private, ha avviato un progetto estremamente ambizioso decidendo di iniziare a riqualificare 14 di quei serbatoi e le aree ad essi circostanti, con l’obiettivo di offrire spazi pubblici di qualità a quei quartieri, scelti proprio là dove la situazione sociale era più critica. Abbattendo i muri per aprire i recinti sono stati costruiti intorno ai serbatoi giardini, impianti sportivi, poli culturali e ricreativi, sale didattiche, palestre, biblioteche, centri civici, spazi comunitari che i cittadini hanno subito difeso, considerandoli loro proprietà e primo baluardo di riscatto sociale. Una grande rete sinergica, contestualizzata però quartiere per quartiere, attraverso laboratori di progettazione partecipata.
Ad oggi sono già 20 le Uva ultimate, un network popolare che ha generato ulteriori strategie per la rinascita della città. A questi investimenti sugli spazi comunitari si sono infatti aggiunti altri e altrettanto innovativi progetti sui temi dell’educazione e della mobilità, sempre volti alla redistribuzione delle opportunità, al riavvicinamento delle favelas alla città storica. Tra i tanti interventi sul trasporto pubblico spicca un sistema ingegnosissimo di funicolari con il quale sono stati raggiunti anche i quartieri più lontani, arroccati sulle pendici della collina.
Per riflettere sui concetti di visione ed efficacia, di connubio virtuoso tra la politica e le politiche possiamo ricorrere anche alle parole con le quali Aravena presentava quella Biennale dedicata a nuovi bisogni e alle pratiche innovative negli interventi urbani, affermando che «non dovremmo chiamare in causa limiti, seppure duri, per giustificare l’incapacità di fare il nostro lavoro. Contro la scarsità di mezzi: l’inventiva. Contro il caos: la precisione».