Il nuovo libro di Massimo Mucchetti, “Il baco del Corriere”, racconta molte cose interessanti a proposito di Telecom e di altri illustri soci del patto di sindacato Rcs, e più in generale del capitalismo italiano: grandi famiglie con la passione dei grandi giornali, intrepidi capitani di industria sempre pronti a dar battaglia con la pelle degli altri. Ma forse l’aneddoto più significativo di questa secolare e non sempre gloriosa vicenda Mucchetti lo ha raccontato nel suo libro precedente, “Licenziare i padroni?” (Feltrinelli). Un aneddoto in cui si parla della privatizzazione della Telecom, ma che non risale alla fine degli anni Novanta, bensì all’inizio degli anni Trenta.
Nel 1933 il governo fascista tenta di ricollocare presso i privati le compagnie telefoniche già privatizzate nel 1924, ma tornate allo Stato non molti anni dopo, perché i loro padroni erano falliti. Credito italiano, Banca Commerciale e Banco di Roma, che li avevano finanziati avendone in garanzia azioni delle società industriali, erano divenuti così i nuovi proprietari. Ma le banche erano state conferite all’Iri con tutte le loro partecipazioni (in cui c’era di tutto) e l’Iri avrebbe dovuto rivendere al più presto le aziende così, “obtorto collo”, rinazionalizzate. E già qui, aggiungiamo noi, la storia comincia a suonare sinistramente familiare. Ma andiamo con ordine.
“Quando, il 6 maggio del 1933, l’Iri convoca i principali imprenditori per proporre loro la Sip, si sente chiedere subito una dote di 700 milioni di lire. Non uno dei maggiorenti dell’epoca è pronto a rischiare di tasca sua”. Siccome noi non siamo né economisti né storici, e Mucchetti non lo dice, non sappiamo se qualcuno degli illustri convenuti si disse disponibile a rilevare lo 0,46 per cento, ma se così fosse non ci stupiremmo. Tanto meno a leggere il seguito. “Dulcis in fundo, dopo qualche giorno di trattativa, Giovanni Agnelli I manifesta il suo interesse per la Gazzetta del Popolo, una delle tante partecipazioni della Sip. ‘Probabilmente in relazione dell’aspra concorrenza tra la Gazzetta del Popolo e la Stampa, della quale ultima egli è l’esponente’, osserva la segreteria di Beneduce”. E così, “mentre si tratta quella che, sul finire del secolo, sarebbe stata definita la madre di tutte le privatizzazioni”, il senatore del Regno si preoccupa di conquistare il monopolio dell’informazione a Torino e dintorni. Anche perché, a quanto si dice, il senatore riteneva la telefonia un’attività senza futuro. La considerava “roba da ricchi”.
La storia finisce, almeno secondo la testimonianza di Cossiga – che a sua volta riporta le parole di Enrico Cuccia, il quale aveva sposato la figlia di Alberto Beneduce – con una secca replica di Mussolini al presidente dell’Iri che gli aveva appena illustrato il deprimente risultato di quelle riunioni: “Non diamogli niente; questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!”.