Mi sono fatto l’idea che una piccola cosa come il congresso dei Ds del Lazio abbia rappresentato lo scontro fra due modi di fare politica. E quindi anche di concepire il Partito democratico. Da una parte c’è chi attribuisce valore alle storie politiche che tentano di confluire nel Pd, tentando di portarci il modo in cui queste storie si sono organizzate nella società. Per costoro non è un problema, peraltro, fare congressi ds e poi anche dedicarsi, all’esterno, al movimento dei cittadini che vogliono entrare nel Partito democratico. Per costoro non è comunque un delitto votare Piero Latino come segretario del Lazio, che nei Ds da anni umilmente lavora. Dall’altra parte c’è la schiera di quelli che, pur non avendo fatto altro in vita loro che vivere in un partito, però si attribuiscono un superiore valore. Per costoro un funzionario come Piero Latino è improponibile: piuttosto votano un più anziano funzionario, Nicola Zingaretti, che però adesso è anche deputato europeo. Si capisce meglio cosa ciò significhi se si tiene conto del fatto che molto vicino a Zingaretti è Walter Veltroni, che ha fatto una grandissima eccezione (per lui, non per tutti gli altri ds) andando di persona al congresso a votare il suo candidato.
Veltroni intende da oltre un decennio il Pd “all’americana”, allargato a quasi tutta la coalizione di centrosinistra: un partito in cui siano diluite le vere e maggiori culture riformiste esistenti (i partiti più grandi d’Italia e della coalizione) e siano incollate pressoché tutte le creaturine micropartitiche del centrosinistra. Va da sé che questo tipo di Partito democratico, privo di asse fondamentale, non prenderebbe avvio, come pare logico, dal riformismo organizzato che c’è (Ds e Margherita), per allargarsi (simultaneamente, ma anche col tempo). No, questo sarebbe un Partito democratico dal riformismo diluito e spezzettato, con dentro da subito un po’ di tutto. E avrebbe bisogno proprio di un enunciatore di contenuti dal largo ed ecumenico significato. Come (quando dice bene) i democrats americani: per esempio John Fitzgerald Kennedy. E’ noto l’amore di Veltroni per i due Kennedy, e nulla è casuale in un politico di livello come lui. In un politico abilissimo a cucinare il brodo iperdigeribile e trasparente in cui poi tuffarsi e nuotare. Guardate per esempio la coalizione che lo sostiene al Campidoglio: dentro c’è tutto, dagli eredi anarco-sindacalisti dei centri sociali (Nunzio D’Erme) alla lista personale, fino alla novità di quest’anno: i Moderati per Veltroni. Se Veltroni potesse avere un altro mandato forse si inventerebbe i “Conservatori per Veltroni”. Fino a includere tutto ciò che è appena a sinistra di Gengis Kahn. Tanto, questa è la convinzione, i valori sono declinabili in modo vago e però mediaticamente coinvolgente. Chi è quel piatto materialista che può negarlo? E di qui il vaso di Pandora dei voti che magicamente si aprirà ad ogni elezione.
E’ insomma la sensazione di questo dualismo che mi preme di comunicare. Una musica di fondo da ascensore d’albergo, la definirei, quella cacciata fuori ogni momento dal politico che richiama valori e sentimenti. E che lo fa accroccando tante sensazioni, ricordi e spartiacque che dovrebbero risvegliare appartenenze le più diverse: il volontariato, l’immaginario cinematografico, la memoria televisiva, quella generazionale, la solidarietà radical-chic romana, la spettacolare ricerca della fede di un ateo. Le appartenenze leggiadre, sarebbero queste, che appunto vorrebbero far figurare i partiti e l’organizzazione semplice degli interessi (da cui invece deve partire il Partito democratico, come qualunque altro partito) volgari come una cloaca dinanzi alla panna montata. Le appartenenze leggiadre di chi se anche stava nei partiti ci stava quasi per caso, con il naso turato e il cucchiaio immerso nella candida panna.
Come se nelle nostre società non servisse più un punto di vista organizzato e collettivo che, umilmente, innanzi tutto rappresenta interessi. Da cui convinzioni, da cui scienza (sì, scienza), da cui una certa idea, diversa da quella dell’avversario, del fenomeno più rilevante ed egemone degli ultimi quattro secoli: il capitalismo. Come se, in sostanza, non servisse più il riformismo di massa. O come se esso si fosse ridotto a un binomio fin troppo leggiadro: democrazia + valori.
Guardiamo le cose con un po’ di metodo. Nel senso che se si capisce da dove vieni e cosa mangi (oltre alle zuppe valoriali che cucini) si capisce pure chi sei e come fai politica. Il “politico dei valori” è davvero spesso romano, milita anche nella destra della “Margherita”, ha fatto spesso il sindaco di Roma, e proviene dallo stesso soffritto di ceto capitolino che fa comunicazione, che fa film, che fa fiction, che nasce e prospera nelle Ong. Gli viene facile, intanto (per adiacenza di ceto) raggiungere il caro amico cronista al Circeo o all’Argentario e motivarlo a scrivere un articolo in cui il congresso dei Ds del Lazio venga dipinto come la lotta fra la leggiadria (di Zingaretti) e la laidezza (di Piero Latino). Il “politico dei valori”, poi, non è portato a concepirsi umilmente come parte del circuito storico degli interessi, ma come produttore di sensazioni “alte”. Anche perché, peraltro, fraintendendo fortemente il senso dei mutamenti sociali odierni, pensa che il circuito storico degli interessi che ha contrassegnato la modernità sia concluso.
Da questo soffritto nasce la zuppa dei valori: nel senso che quel politico non lancia un messaggio immerso in interessi del tutto legittimi e parziali, perché no: per lui non è questa la politica. La politica è elevarsi oltre gli altri politici. Attribuirsi valori tali che chi non è d’accordo? E’ smaniare per andare in Africa a fare il volontario, e poi rimanere a fare il sindaco (e chissà: diventare il prossimo leader del centrosinistra) per “senso di responsabilità”. E’ dire: tu fai un partito, io indico un orizzonte; tu ti candidi al congresso, io faccio una scelta di vita; tu rappresenti per poi mediare, io sono già la sintesi valoriale. Per questo gli statisti mi interessano più come martiri (i Kennedy, o Palme). Per questo stavo nel Pci, ma non ero comunista (ero già “valorialista”). Per questo il mio non è un sistema di consenso (è il “modello Roma”). Per questo passo le notti insonne a scrivere romanzi pieni di sentimenti “alti”, e poi sento un obbligo morale a recarmi, già esausto ma lucido, a governare il Campidoglio.
E invece chi scrive queste righe un po’ sarcastiche lo fa perché ritiene che le cose stiano altrimenti: se mi propongo di rappresentare degli interessi, poi i valori vengono di conseguenza. Perché voglio che quegli interessi vengano garantiti come manifestazione e come organizzazione. E quindi mi interessa la democrazia e la Costituzione. Non è solo che come mangio e come mi organizzo ha un influsso su come penso, perché se sto sospeso per aria che vuoi che penso? E’ anche vero che, oltre ai miei interessi, ce ne sono altri che producono soluzioni e scienza, e io voglio norme a garanzia di un confronto che mi dia qualche chance. E quindi voglio stabilire che eticamente la libertà di investire in borsa non può sormontare quella di studiare, o di curarsi.
Sembrerà tutto scontato, ma è per dire che, se qualcuno avesse dei dubbi, non c’è incompatibilità fra etica e rappresentazione degli interessi. Non c’è incompatibilità fra un partito con tanti limiti e una Costituzione con tanti principi. No: c’è una continuità. Gli interessi e la scienza stanno da varie parti, e producono persino valori. E le norme (costituzionali o meno) escono di lì, o al massimo stanno in mezzo agli interessi, non sopra. Ma se io non mi organizzo per gli interessi, per dire la mia su quello che ci sfama o ci affama (il capitalismo, si diceva, come invariabilmente da secoli) nessuno si preoccuperà di produrre norme, né di produrre valori.
Se non ci sarà interesse organizzato, se non ci sarà partito pieno di carne e sangue e sezioni e funzionari come Piero Latino, poi mi toccherà il peggio del peggio: che un grande editore si farà intervistare sul proprio giornale e mi indicherà come leader del Partito democratico. Perché io ho le qualità per tessere una base di valori, ma senza che davvero siano radicati negli interessi. Senza, cioè, una politica proprio per questo indipendente (magari anche alleata, ma indipendente) da influssi che non ha scelto associativamente di rappresentare. E allora che bisogno ci sarà di un congresso? Avrà già votato chi doveva. L’intendenza seguirà.