Il metal è, nella sua forma migliore, ricerca dell’estremo: estrema potenza, forma, contenuto. Anche il jazz, nel corso della sua più lunga storia, si è lasciato tentare felicemente da questa ricerca, dall’ansia di spingere, ogni volta, un po’ più in là il limite. Esiste anche un territorio condiviso tra questi due generi, dove la fusione di queste estremità permette di mappare continenti in formazione, dai confini mobili.
John Zorn, nato nel 1953 a New York e multiculturale per nascita, formazione e contiguità, è uno dei maggiori cartografi di questo territorio: lo si potrebbe definire musicista jazz, salvo accorgersi dell’infinita teoria di contaminazioni sonore, letterarie, intellettuali infuse nel suo stile e lasciate di proposito confliggere per dare vita a qualcosa d’altro. Il primo limite abbattuto è proprio quello della riconoscibilità: le composizioni di Zorn hanno sempre qualcosa di familiare e sembrano sempre sul punto di cedere al dominio dell’ascoltatore, ma si tratta di brevi illusioni spezzate dall’irruenza free di un’improvvisazione non priva di regole sottili. Zorn è l’espressione massima del crossover, della frattalità, del centrifugato di note e stili: affrontare un titolo qualsiasi della sua fluviale discografia equivale ad avventurarsi nel livello “incubo” di un videogioco carnage, dove nulla è ciò che sembra e lo spiazzamento è l’unica certezza. L’obiettivo è spostare il limite; sempre più verso la parete esterna dell’universo musicale, oltre la quale si precipita nel nulla inteso come somma del tutto: l’inaudibile orecchiabile, l’armonia di acciaio e cristallo.
Esploratore della composizione breve e del movimento, della colonna sonora e dell’arrangiamento, titolare di oltre un centinaio di lavori e di ben otto formazioni differenti (Naked City, Cobra, Masada, Electric Masada, Masada String Trio, Bar Kokhba Sextet, Painkiller, Hemophiliac); proprietario dell’etichetta e del progetto Tzadik; colpevole di ripetute collaborazioni con metallici figuri quali Dave Lombardo (Slayer), Mick Harris (Napalm Death) e Justin Broadrick (Godflesh), si prepara a concludere il 2006 con un’ennesima uscita (quinta, per l’esattezza, dal promettente titolo di “Godard”), dopo aver messo a segno, tra aprile e ottobre, un uno-due degno di un peso massimo: “Moonchild” ed “Astronome”, entrambi ispirati alla vita e alle opere di tre personaggi tra loro differenti come il filosofo esoterico Alistair Crowley (caro a più di un gruppo metal), il poeta e drammaturgo Antonin Artaud e il compositore moderno Edgar Varèse. Per le undici canzoni del primo lavoro e i tre movimenti del secondo richiama tre affiatati complici, tre autentiche estensioni del suo senso musicale: Mike Patton (quello dei Faith No More/Mr.Bungle) alla voce, Trevor Dunn (Mr.Bungle, Fantomas e svariati progetti jazz) al basso e Joey Baron (Masada e Naked City, ma anche Dizzie Gillespie, Stan Getz e Laurie Anderson) alla batteria. Esperienze, culture e sensibilità tanto eterogenee quanto quelle degli ispiratori di questo dittico, all’interno del quale Zorn dirige con mano lieve ma ferma; impostando e suggerendo, incalzando e sovrastando per poi lasciare campo libero alla creatività altrui e ad una straordinaria voglia di suonare – ovvero, di trafiggere l’aria con ogni sfumatura di suono possibile. Il risultato è aspro e sfidante, ma, superato il primo impatto, ci si può lasciar travolgere dalla ricchezza e dalla fluidità del discorso musicale; così come si può restare impressionati dalla straordinaria interpretazione vocale di Patton (più devastante di tanti baritonali growlers) o consigliare agli aspiranti batteristi death la politonia interpretativa di Baron. Per poi accorgersi, alla fine, di aver ascoltato l’impossibile connubio tra fantasia e matematica.