Capita a tutti di domandare, nel bel mezzo di una discussione: ma ti rendi conto? Domanda fatale, in cui precipitano secoli di riflessione filosofico-teologica sull’umanità dell’uomo. Secondo Giovanni Sartori (Corriere della sera, 28/2/05), una domanda del genere disegna infatti la soglia oltre la quale sta saldo sulle proprie gambe l’uomo: chi non si rende conto, invece, non è uomo. Siate prudenti, dunque, quando domandate. E in ogni caso, non domandate a un embrione. Il quale non si rende conto di un bel nulla, dunque non è uomo.
Nel difendere la sua idea meravigliosa (Corriere della sera, 4/3/05), Sartori ha precisato di essersi riferito non all’esercizio in atto del “rendersi conto”, ma solo alla relativa capacità. In questo modo, ha certo allargato il consorzio umano sino a comprendere almeno se stesso, ma ha comunque escluso il feto, il neonato, e qualunque vecchietta abbia a causa di una malattia degenerativa perduta una tal capacità (Antonia Colamarco, per esempio, classe 1908). Sartori potrebbe pure intendere che il “rendersi conto” vada riferito a un generico sensus sui ipsius: la signora Antonia sarebbe allora di nuovo simile al professor Sartori, ma sarebbero a lui simili, e cioè come lui uomini, anche altre specie animali, che di sé si rendono certo conto e hanno sentimento, sebbene non nella forma superiore, intellettuale e riflessa, di cui è capace l’uomo (ma non più, ahimé, Antonia Colamarco).
Di tutto ciò, infine, c’è da dubitare che Sartori, a giudicare almeno dall’articolo e dalla testarda replica, si sia reso conto. Eppure la domanda di Sartori non era da buttar via. Sartori chiedeva infatti quando una vita è propriamente vita umana. E Sartori, che ha buon fiuto, sospettava che la domanda in questione non fosse di esclusiva pertinenza biologica, poiché il concetto di vita umana non è un concetto esclusivamente biologico. Quanti dunque hanno chiesto al professore di rassegnarsi all’evidenza della continuità biologica di specie fra embrione e uomo, non hanno affatto risposto alla sua domanda: l’hanno semplicemente elusa.
Nulla impedisce ovviamente di tenersi a una definizione dell’uomo in termini di mera specie biologica. Ma se questo è un uomo, cioè una specie biologicamente determinata, il rispetto che gli sarà dovuto non potrà essere diverso dal rispetto dovuto a qualunque altra specie vivente. Di dignità della persona, neanche a parlarne. Per la tutela giuridica, rivolgersi al Wwf o alla Lipu.
Il fatto è che una volta ridotto l’uomo a nuda natura, così da poter dire l’embrione uomo allo stesso titolo di ogni altro individuo della specie, non si deve a quest’uomo altro rispetto morale e giuridico di quello che si deve (ammesso che lo si debba) alla natura nuda. E così gli strenui difensori dell’embrione rivelano di essere, loro malgrado, i più ostinati spregiatori della natura umana.
Si capisce però perché ciò accada. Perché si confida che alla scienza possa essere affidato il compito di fornire un concetto minimo e obiettivo di uomo, non compromesso con una specifica antropologia filosofica, dunque buono per appoggiarci sopra una legge, un principio giuridico, una nozione morale.
Ma è un’illusione. Quel minimo comune denominatore lo si raggiunge solo a patto di renderlo eticamente insignificante. E solo una fallacia naturalistica (di quelle denunziate dal vecchio Hume) può consentire di fondare il rispetto dell’uomo (che è nozione etica quant’altre mai) sopra un concetto di uomo eticamente insignificante.
Sarebbe bene che i difensori della legge 40, specie i cattolici, si rendessero ben conto (è il caso di dirlo) di quello che fanno: prima riducono al minimo l’uomo, e poi per questo uomo ridotto al lumicino, per quest’uomo-zigote, pretendono una difesa massima, niente meno che assoluta. Rischiano così di fare la stessa fine che fece certa antropologia cattolica alle soglie dell’età moderna: messa sulla difensiva, buttò via Aristotele e Tommaso, e per difender meglio l’immaterialità dell’anima umana si affidò alla scienza nuova, cioè a Cartesio, alla separazione radicale fra res cogitans e res extensa, macchina del corpo umano e anima spirituale. Tempo un secolo, e nessuno capì più, se la macchina funzionava da sola così bene, a cosa diavolo servisse l’anima. In maniera del tutto analoga, se l’uomo è il suo genoma, non si capisce più perché ficcarci dentro dell’altro. E così, arroccata nella difesa biologica della vita umana, la cultura cattolica rischia di perdere tutto il resto, cioè l’essenziale. E se vincesse al referendum, la sua sarebbe davvero una vittoria di Pirro.
Ma c’era una domanda. E c’era la signora Antonia. Che allattava il primo dei suoi nove bimbetti mentre altrove Edmund Husserl, filosofo tra i maggiori del Novecento, provava a fondare fenomenologicamente la nozione di uomo sull’esperienza originaria dell’appaiamento. In un rigo: è uomo ciò che è come un uomo. L’uomo si definisce per analogia con quel che già è e intende essere, e non invece per una supposta essenza immutabile, ancor meno se questa essenza dovesse essere cercata nel mero corredo cromosomico. L’analogia rimane di sicuro aperta e per qualche tratto indefinita (forse proprio questa apertura è la caratteristica più saliente dell’uomo!), ma è definita abbastanza perché essere come uomini includa quelle primordiali esperienze emotive e affettive che il “rendersi conto” di Sartori bellamente ignora. E perché non includa, con minore ma ragionevole certezza, il campo esperienziale di un embrione; mentre è un bene, infine, che includa le speranze di vita e di salute degli altri uomini come noi. E, dimenticavo, di alcuni bisnipoti della signora Antonia, per i quali, se la legge 40 fosse retroattiva, il governo dovrebbe pensare a un condono.