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I cimiteri di Trieste

Cara Left Wing,
non so che rapporto hai con i cimiteri. A me piacciono, quando viaggio e ne ho la possibilità vado sempre a visitarli perché mi sono fatto l’idea – banale, mi rendo conto: ma non mi ritengo un pensatore, diciamo – che dicono molto più dei vivi che dei morti.

Comunque, qualche giorno fa passavo a Trieste di ritorno dalla Slovenia. Mi piace fermarmi in quella città, vuoi perché ha la piazza più bella del nostro paese, vuoi perché mentre aspetti di attraversare la strada ti può capitare di ascoltare due donne parlarsi in una lingua fatta di slavo e triestino e chissà cos’altro ancora come se niente fosse, vuoi perché se ti piacciono le insegne obsolete è una miniera inesauribile di piccole perle imperdibili. Avevo un’oretta libera prima di pranzare nella microscopica trattoria dove vado di solito, tenuta da profuga dalmata sposata con un ex camionista del Testaccio, e l’ho passata, appunto, per cimiteri. Plurale, perché quella città meravigliosa ne ha sette, tutti raccolti in forse meno di mezzo chilometro. Il serbo ortodosso, che di fronte ha l’ex militare dove trovi tombe di soldati italiani e russi e sloveni e inglesi, e il greco orientale e l’ebraico e l’evangelico e il cattolico e l’unico interamente musulmano che si trovi in Italia. Qualcuno è chiuso per lavori, in qualcuno si può entrare solo chiedendo la chiave a un console di un paese straniero che si prende carico della manutenzione: non fa nulla, tutto sommato la cosa importante è che siano lì, uno a fianco all’altro, ad accogliere persone diverse per cultura e religione e lingua e unite dal vivere, magari da tante generazioni, nella stessa città.

Poi, certo, lo so: è la stessa città nella quale l’amministrazione regionale fa togliere dal suo palazzo lo striscione per Giulio Regeni e dove non è così improbabile sentir parlare con un tono di velato disprezzo degli slavi che vivono a un quarto d’ora e un confine di distanza. Chissà, forse i vecchi triestini, quelli che decisero non solo di vivere ma anche di morire insieme, non ci sono più. O forse, come capita a tutti, giuliani e padani e campani e sanniti, si sono incistati in una delle sacche dei corsi e ricorsi storici, quella delle frontiere, dei decreti sicurezza, dei bracci di ferro con decine di disgraziati in fuga da guerre e fame, dell’Ollolanda. O forse si sono semplicemente dimenticati il nome della via sulla quale si affacciano quei sette cimiteri perché è da troppo tempo che non vanno a trovare i loro bisnonni, e basterebbe allora poco per pensare non tanto a quanta strada è stata fatta dalla loro costruzione, ma a quale: quella strada si chiama Via della Pace.