Il mondo della storiografia, da un po’ di tempo a questa parte, è dominato dalla logica dello “svelamento del segreto”. Per rendersene conto basta entrare in una qualsiasi libreria e raggiungere lo scaffale dedicato alla storia: è tutto un florilegio di “libri neri” che promettono inaudite illuminazioni su questo e su quello, di paccottiglia su Templari e dintorni, di presunte rivelazioni sul lato oscuro di ciò che si crede noto, che rischiano di sovrastare fisicamente – quanto a volume cartaceo – le pur numerose pubblicazioni tradizionali.
O anche: basta guardare trasmissioni televisive e canali specializzati. Anche lì, la gran parte dei palinsesti è dedicata a programmi che si collocano a metà strada tra il complottismo e il sensazionalismo, perlopiù centrati su alcuni nuclei tematici i quali, evidentemente, incontrano la curiosità un po’ morbosa del grande pubblico: il nazismo (in particolare indagato nei suoi legami con le perversioni in genere e con l’esoterismo), il fascismo e la sua ingombrante presenza nella vita pubblica italiana, la solita serie di scempiaggini su Graal, piramidi, Rosacroce, cose così.
Su questa falsariga è stato annunciato ieri “Il mondo privato di Hitler”, un documentario costruito attorno a un software che, a quanto pare, consente di leggere il labiale delle frasi pronunciate dal dittatore nazista nella vasta serie di filmati muti che lo ritraggono nelle più varie situazioni, già noti e utilizzati dagli storici “tradizionali” per produrre l’enorme bibliografia oggi disponibile sul personaggio e sulla sua epoca. Sarà trasmesso dall’emittente inglese Channel Five, poi prevedibilmente farà il giro del mondo.
Niente di nuovo, stando alle prime notizie diffuse a riguardo: pare che Hitler parlasse male di Göring, anche con toni piuttosto pesanti; che si rivolgesse ad alcuni bambini con frasi retoriche e stereotipate inneggianti all’eroismo e al servizio della patria; che dialogasse con Eva Braun al modo in cui ci si può immaginare un cinquantenne si possa rivolgere alla propria giovane amante. Magari quando le prime indiscrezioni saranno accompagnate dal resto delle letture salterà fuori qualcosa di più succoso. Finora, ribadisco, niente che non fosse già noto, niente che serva a illuminare aspetti della personalità di Hitler che non fossero acclarati da tempo.
Ovviamente, la cosa si vende già bene. L’articolo con cui Repubblica dava ieri la notizia recitava testualmente: “Questo software ha permesso agli studiosi di risolvere uno dei grandi misteri della cinematografia nazista: che cosa diceva Hitler ai suoi gerarchi nei numerosi film muti di propaganda del tempo, o nelle riprese private girate nel «nido delle aquile» bavarese, il Bergof, in cui il Fuhrer appare spesso insieme all’amante Eva Braun. Finalmente la tecnologia ha decodificato i dialoghi di Hitler e non sono mancate le sorprese”.
Gli studiosi, grandi misteri, finalmente, le sorprese. La logica è questa. E’ la logica di Dan Brown. Se volessi essere polemico e stare sulla notizia, direi anche: è la logica di Deaglio. È la logica che sempre più spesso organizza la comunicazione di massa, anche attorno a temi che richiederebbero altro tipo di pazienza, di attenzione, di cautela, di sfumature. È, innegabilmente, una logica vincente.
Finivo giusto ieri di leggere il saggio di Alessandro Baricco intitolato “I barbari”, già comparso a puntate sempre su Repubblica e pubblicato in volume settimana scorsa. Secondo lo scrittore sta accadendo ora, nel campo della ricerca del senso dell’esperienza del mondo, una vera e propria “mutazione antropologica” i cui tratti distintivi sarebbero spettacolarità, rifiuto della profondità e della fatica intellettuale, superficialità, velocità e semplificazione, tendenza alla commercializzazione spinta, innovazione tecnologica e dissacrazione. Ci vorrebbe un altro articolo e altro spazio per entrare nel merito della tesi di Baricco e delle argomentazioni fornite a suo sostegno, ma la descrizione – adeguata o meno che sia – sembra aderire perfettamente alla vicenda dei labiali di Hitler (e al resto della storiografia-fuffa). Baricco sostiene, non senza un certo sprezzo del pericolo, che tale mutazione possa significare non solo e non tanto la distruzione della cultura così come fino a oggi (a ieri) l’abbiamo conosciuta, bensì un altro modo di attingere e indagare il senso del reale. A chi vive ancora immerso nella cultura borghese di matrice otto-novecentesca tale mutazione non può che apparire come un imbarbarimento, ma Baricco propone: proviamo a capire, ciò che chiamiamo “invasione barbarica” potrebbe essere un modo di riorganizzarla, la cultura. Di articolarla altrimenti. Anche di questo è impossibile, qui e ora, discutere. Mi limiterò a dire: può darsi. Forse davvero ci attende un futuro (che evidentemente è già qui) in cui la conoscenza storica sarà costruita anche da tecniche spettacolarizzate, dalle quali Hitler sarà trattato esattamente alla stregua di Materazzi e del suo misterioso labiale nella notte della finale dei Mondiali, o di un fuori onda di “Striscia la Notizia”. Magari il video d’epoca, muto ma sottotitolato, verrà distribuito su YouTube. Magari qualcuno penserà di rubricarlo sotto la dicitura “video divertenti” (avrà anche fatto qualche battuta di spirito, ogni tanto, il buffo dittatore; e poi sarà davvero lui o forse è Chaplin che ne fa la parodia?). Chissà se qualcuno penserà ancora di dover indagare e perseguire i fornitori tecnici del servizio (o magari i programmatori del software che legge i labiali).
Se ciò accadrà, Hitler sarà del tutto dissacrato, privato della sua natura di sineddoche del male assoluto, accostato a un presunto video erotico di Britney Spears e all’ultima performance di qualche adolescente giapponese o coreano che imita Darth Vader con un manico di scopa al posto della spada laser. Perderà, insomma, tutta la sua pesantezza. La sua profondità. Ciò potrebbe persino non essere un male. Può darsi, dicevo, che Baricco non abbia tutti i torti. Certo, occorrerà allora parecchia forza per continuare a recuperare e pensare la differenza: tra Hitler e Britney Spears. Tra Hitler e il villain dell’ultimo blockbuster. Tra la morte di cinquanta milioni di esseri umani a causa della seconda guerra mondiale e quella di cinquanta milioni di comparse elettroniche in un qualche videogame strategico.
Si può reagire a tutto ciò con spavento e sdegno. Si può opporre a tutto ciò uno sprezzante sussiego. A rifletterci appena un poco, tuttavia, non si può che riconoscere che, alla fin fine, siamo tutti un po’ barbari. Mi voglio spiegare con un esempio autobiografico. Quella logica, esattamente la stessa che origina e detta i tempi e i modi della comparsa di tutta quella paccottiglia, è la stessa che mi ha fatto innamorare di Mozart vedendo uno spettacolarissimo e – dal punto di vista storico – più che semplicistico film. Vidi “Amadeus” quando avevo vent’anni, mi piacque da matti e mi venne la curiosità di andarmelo ad ascoltare per benino, quel Mozart. Poi, sulla scia della curiosità, lessi tutto ciò che serviva a capire che Milos Forman (e prima di lui Peter Shaffer, il drammaturgo autore del soggetto) aveva inventato molto e che quel Mozart non era Mozart (e però, al tempo stesso, lo era: o almeno, era stato per me la porta d’ingresso al “vero” Mozart, e quindi con la “verità” di Mozart doveva aver avuto qualcosa a che fare).
Eccola qua, la sfida. Riuscire a far sì che questo tipo di percorsi siano aperti, possibili, percorribili. Che nella superficie si dia se non la profondità (sarebbe contraddittorio) almeno la sua traccia. O anche: discernere una superficialità buona da una cattiva. Non so bene perché, ma ho la sensazione che in questa sfida sia in gioco parecchio di ciò che diventeremo.