Nel corso di questo articolo farò la mia dichiarazione di fede. La cosa non dovrebbe importare più di tanto, ma poiché quasi non c’è voce pubblica che non sia chiamata a prendere posizione, di cui non ci si chieda in premessa se sia laica o cattolica, credente o non credente, atea o religiosa – beh: non voglio sottrarmi. Non dirò nemmeno di essere agnostico. Di questi tempi, l’agnostico fa la figura dell’imboscato, o almeno del terzista, di quello che non vuole schierarsi, e allora starò al gioco: niente agnosticismo.
Che vuoi fare? È il ritorno della religione, si dice. C’è un grande bisogno di trascendenza. In Italia, questo ritorno si manifesta visibilmente nell’aumento delle fiction televisive dedicate a santi e papi piuttosto che nell’aumento del numero dei fedeli, ma non è di questo che voglio parlare. È la questione dei valori, si dice. Una società non può vivere senza valori, si dice (Ikea non può rifiutarsi di vendere presepi, qualcuno arriva a dire). Coloro che ne sembrano tanto convinti da considerare la parola “valore” il necessario condimento di ogni pubblico discorso, non sembrano trovare motivo di domanda nel fatto che la parola “valore” nel Vangelo è assente, è sconosciuta a San Paolo, è ignota a Sant’Agostino e a un mucchio di santi dopo di lui. Motivo di domandare ci sarebbe, invece: si potrebbe così mostrare che di valori si comincia a parlare quando c’è bisogno di inventarsi una sorta di scialuppa di salvataggio per traghettare nella modernità costrutti metafisici che non ce la fanno più a stare in piedi da soli. Ma di questo, un’altra volta.
Però la secolarizzazione ha fallito, si dice. C’è bisogno di religione nello spazio pubblico, si dice. Per far cosa, non è chiaro. Non è chiaro sotto qual profilo la qualità del vivere civile sarebbe migliore se riprendessimo a litigare anche in nome di simboli religiosi, o se togliessimo la parola a chi non vuole starsene quieto sotto questo o quel simbolo religioso. Ma neanche di questo voglio parlare. C’è la mia pubblica dichiarazione che attende. Secondo Carlo Augusto Viano, ripreso sabato da Antonio Carioti sul Corriere della sera (in un articolo che passava in rassegna l’ateismo contemporaneo dichiarato e manifesto), la cosa comincia a farsi necessaria: “Un tempo dirsi atei pareva di cattivo gusto e ci si dichiarava agnostici per apparire più rispettosi verso i credenti. Oggi però, di fronte alla crescente pretesa delle chiese, specie la cattolica, di imporre le credenze religiose in un contesto pubblico, di introdurle nelle costituzioni e nelle leggi, il pudore di una volta è venuto meno e l’ateismo è diventato una forma di legittima difesa dall’aggressività integralista”. Forse Viano ha ragione: a San Giovanni, Silvio Berlusconi ha sentito l’esigenza, parlando al popolo del centrodestra, di spiegare non solo che vuole mandare a casa il governo Prodi e i comunisti, ma che vuole (finalmente!) una società fondata sui valori del cristianesimo. In verità, sono convinto che, dolce e magnanimo (e annacquato) com’è, il cristianesimo berlusconiano non costringerebbe ai margini della società atei e miscredenti, ma saprebbe amabilmente tollerarli.
Ma insomma: che fare? Dichiararsi agnostici, s’è visto, non si può: troppo comodo. In cuor suo dubiti pure di credere, o di non credere, resti pure indifferente al problema, ma in pubblico si assuma le sue responsabilità. Anche Viano sembra esigerlo e chiama alla battaglia. E poi, via: si può essere agnostici in un’epoca come questa? È possibile non interrogarsi intorno ai problemi ultimi dell’esistenza?
Per cavarmi di impaccio, mi sono allora ricordato una parola di Pascal, il quale soleva dire che il cristianesimo aborre il deismo quasi quanto l’ateismo (notate la finezza di quel “quasi”). Poiché sono sicuro che un ateo a sua volta aborre il deismo quasi quanto il cristianesimo, ho deciso: almeno per questa legislatura, sono deista. Non che ami essere aborrito, ma l’idea di non arruolarmi mi piace molto. Se non altro la cosa ha il pregio dell’originalità. Non ne vedo molti, di deisti, in giro. Non dico di strane ed eclettiche fascinazioni new age, insaporite di uno spirito sincretistico in cui non ho bisogno di credere. Quella è pappa del cuore: non voglio averci niente da fare. E non dico neppure di grandi orologiai che perlomeno mettano in moto il mondo, quasi che a questo mio pallido dio io voglia far fare qualcosa che altrimenti non si saprebbe come spiegare. No, ancora meno: sono deista nel senso di quel dio, dinanzi al quale non si può pregare né danzare, quello che non scalda il cuore di nessuno, e che non può minimamente accreditarsi neppure come ipotesi scientifica (figuriamoci: che bisogno ne avrebbe mai la scienza di oggi?). Il più scialbo dio che sia mai stato inventato. Questo dio che non serve a niente ha un solo pregio: se ne può parlare.
Addirittura immaginarsi dialoghetti abbastanza insulsi del tipo: lui mi viene a trovare, mentre mi rompo la testa su una pagina di Spinoza, e prima mi chiede se mi serve qualcosa (è pur sempre un dio), ed io rispondo: niente, grazie. Poi mi chiede rispettoso: posso restare? Ed io: certo. Ma, sai, me la sbrigo da me. Per il resto, noi due si rimane in silenzio. Ora, il credente mi obietta che così sono troppo orgoglioso e chiudo la porta a Dio; l’ateo che invece mi tengo una porta aperta, perché non si sa mai. Io un po’ me la rido (si vede?). Non faccio lega con nessuno (per questa legislatura). All’ateo rispondo assicurandogli che il mio dio proprio non ce la farebbe a salvarmi, neanche se volesse, e al credente che io non chiudo la porta a dio, ma casomai, se proprio insiste, a lui.
E così ho un dio. Non piace al credente, non piace all’ateo. Se mi si chiede che me ne faccio, beh, è chiaro: è anzitutto per spiacere agli uni e agli altri. Quando il credente s’indigna e grida: è la dea ragione!, io lo prego di spiegarsi con l’ateo che al mio fianco mi considera abbastanza irragionevole, visto che conservo questo pallido e insensato residuo del divino. E quando l’ateo si arrabbia perché così, volens nolens, faccio il gioco del credente, accreditando una dimensione che non esiste, io rispondo: ma di che ti preoccupi? Io accredito una dimensione che ha il solo scopo di beccarsi gli insulti del credente e quelli tuoi.
Insomma: c’è quella scena comica in cui si smonta e si rimonta un motore, e alla fine un pezzo rimane tra le mani ma il motore funziona lo stesso. Quel pezzo inutile è il mio dio. Il motore funziona: per gli atei, funziona benissimo senza dio. Per i credenti: funziona solo grazie a Dio (che opera più o meno segretamente). Per me funziona benissimo senza dio, ma in più ho un dio cortese con cui scambiare due chiacchiere. Non più di due, e abbastanza insulse. L’ho detto: chiacchiere che lasciano il bisogno di senso del credente a bocca asciutta, e l’ateo con l’impressione che non gli sia riuscito di consumare fino in fondo il fiero pasto.
Vedete che però, messo così, il mio deismo in fondo serve a qualcosa: a essere saggi e mangiare il giusto. E forse a un’altra cosa ancora. In tempi in cui si inaspriscono i conflitti politici e religiosi (magari mescolando gli uni con gli altri), il mio dio mi ha convinto a preparare lo stesso cartello che Spinoza avrebbe voluto mettere vicino ai resti dei fratelli de Witt, linciati e squartati e venduti a pezzi e mangiati nel 1672, nella civile Olanda. Quel cartello diceva soltanto: Ultimi barbarorum. Il mio dio non dice altro.