Panegirico di Beppe Pisanu

Nei sei ultimi decenni di pace vissuti dalla nostra Italia è difficile che le donne e gli uomini della nazione si siano trovati di fronte a momenti veramente drammatici, in cui dipendeva dalle loro scelte la sopravvivenza della patria. A tutti è stata data la possibilità di sbagliare. La sorte di essere messo, almeno una volta, di fronte a responsabilità terribili è toccata a Giuseppe Pisanu. Nel Partito comunista italiano il suo ricordo era molto vivo. Si raccontava che durante la lunga primavera del 1978 il partigiano Ugo Pecchioli usciva quotidianamente dal palazzo delle Botteghe Oscure e copriva rapidamente i pochi passi che gli consentivano di varcare il grande portone di Piazza del Gesù: lì dentro trovava il segretario politico della Dc, il partigiano Benigno Zaccagnini, piegato dal dolore e dalla consapevolezza di non poter più riabbracciare vivo l’amico Aldo Moro; la linea della fermezza, che ha consentito all’Italia di continuare a esistere e di sconfiggere il terrorismo, era concordata passo passo con un giovane dirigente della segreteria, Pisanu appunto, che da solo reggeva il partito in quella difficile posizione. Non deve essere stato facile per lui tenere testa ai blasonati capicorrente della grande balena, capire che Moro non poteva essere salvato e che i comunisti rappresentavano la riserva più sicura della democrazia italiana, attaccata da tanti nemici interni ed esterni infiltrati in tutti i livelli dello Stato.
Forse proprio perché passato da una prova così difficile, Pisanu è stato un eccellente ministro degli Interni, un grande democratico. La sua statura si è vista pienamente in almeno due occasioni: innanzi tutto nell’organizzazione del Social Forum di Firenze del novembre 2002, che veniva dopo la tragica gestione della piazza, in occasione del G8 di Genova, da parte dell’allora ministro Claudio Scajola e dell’allora provvisoria segreteria Ds. Firenze era stata oggetto di proclami mortuari da parte di tanti irresponsabili (tra cui si distinsero Oriana Fallaci e Franco Zeffirelli); Pisanu seppe cosa fare: trovò nel nuovo segretario Ds Piero Fassino un interlocutore affidabile, il Social Forum fu una festa, le forze dell’ordine furono nascoste nei vicoli e usate per proteggere, e non per respingere, i manifestanti. Fu usato lo schema più vitale nella vita della Repubblica: le masse incluse nello Stato, il ribellismo trasformato in forza di riforma, le classi dirigenti messe al servizio delle speranze popolari di cambiamento.
L’altra prova in cui Pisanu si è conquistato la nostra riconoscenza è stata la lotta senza quartiere alle nuove Brigate Rosse: dopo l’assassinio di Massimo D’Antona e quello di Marco Biagi la rinata colonna terroristica faceva paura. Pisanu non le ha dato tregua: ha trovato il bandolo giusto (malgrado il clamoroso errore del precedente governo di centrosinistra che aveva dato in pasto all’opinione pubblica un gruppetto di innocui e innocenti comunisti nostalgici delle periferie romane) e lo ha seguito fino in fondo, senza fermarsi, senza lasciare residui, senza pescare nel torbido. Se oggi gli striscioni contro il ministro Cesare Damiano sono oggetto di legittime discussioni politiche, ma non ci fanno correre i brividi nella schiena, il merito è di Pisanu.
Ma forse nella notte del 10 aprile 2006 Giuseppe Pisanu si è trovato ancora da solo con un fardello pesante. Se è vero che il capo del suo governo aveva pronto un decreto di annullamento della consultazione popolare. Pisanu ha reso pubblici i risultati del voto, malgrado i margini così ristretti e incerti fino all’ultimo che hanno dato la vittoria all’Unione. E non abbiamo alcun motivo per credere che quei risultati non rispondano a verità. Chi scrive non ha alcun dubbio: non solo perché se dovesse scegliere tra Pisanu, e l’assortita tribù formata dai Deaglio, Calderisi, Capezzone, Berlusconi, eccetera, è assolutamente certo su chi saprebbe difendere la democrazia, e su chi ne farebbe strame – sia pure inconsapevolmente o animato delle migliori intenzioni. Ma soprattutto perché la democrazia sta nei milioni di elettori andati ai seggi, nei conti forniti da migliaia di presidenti e scrutatori di seggio, dispersi nelle tante Italie (compresa la vituperata Campania), la democrazia è nelle prefetture, negli enti locali, nella magistratura e nella macchina dello Stato. Nessuno (e sottolineo nessuno), potrà convincere la nazione che un riconteggio affidato a una commissione parlamentare centrale, per quanto assistita dai più sofisticati strumenti della tecnica, possa essere più sicuro della verità pubblica emersa in quella notte. Uccide la democrazia chi crede che i tanti, proprio perché tanti, sarebbero più esposti alla manipolazione rispetto a pochi incorruttibili eletti, o alle agenzie di sondaggi ed exit-poll, o che un bellimbusto americano possa mettere in dubbio ciò che milioni di italiani hanno deciso chiamando in causa un suo programmino elettronico (sic!). Del resto, che quei dati siano veri, che il peso di centrosinistra e centrodestra in Italia sia esattamente quello fotografato quella notte, lo percepisce chiunque viva in questa nazione, passeggi nelle sue vie, lavori nelle sue imprese, e non si chiuda in un qualche fortino assediato sognando un mondo diverso da quello che c’è. Questa è la democrazia conquistata a caro prezzo dagli italiani: siamo milioni, diversi, animati da tante passioni, virtuosi e viziosi; ma nessuna cricca di manipolatori è mai riuscita in sei lunghi decenni a piegare il gusto degli italiani per la libertà: questo ci ha insegnato chi, come i comunisti e i democristiani, ha costruito in Italia una vera democrazia.